Stop Painting

Fondazione Prada, Venezia 2021

di Edoardo Pilutti

In contemporanea alla Biennale di Architettura, una storica collettiva ideata e curata dall’artista svizzero Peter Fischli, è appena stata inaugurata a Ca’ Corner della Regina, palazzo settecentesco sede veneziana di Fondazione Prada. S’intitola “Stop painting” cioè “Basta dipingere” e presenta una serie di fasi di abbandono o contestazione e rifiuto della pittura nella storia dell’arte degli ultimi 150 anni, a seguito dell’uso di nuove tecniche e di evoluzioni sociali e culturali.

Cinque sono state le fasi storiche di ripudio e reinvenzione individuate dal curatore.

La prima corrisponde alla diffusione della fotografia, la quale mise in discussione i paradigmi di unicità dell’opera d’arte e della soggettività dell’espressione dell’artista. Perciò il pittore Paul Delaroche, circa nel 1840, aveva perentoriamente affermato: “Da oggi la pittura è morta”. Per mantenere un suo ruolo accanto alla fotografia, la pittura fu allora spinta a prendere sempre più le distanze dalla sua funzione di riproduzione mimetica.

Il secondo momento è consistito nell’invenzione del readymade e del collage, che alienano la pittura da sé stessa e la sostituiscono, nel primo caso, con oggetti già pronti insigniti dello statuto di opera d’arte; nell’altro caso con frammenti di carte colorate, manifesti, scritte e immagini varie, incollati fra loro.

Il terzo è provocato dalla messa in discussione dell’idea di autorialità, cioè dell’originalità dell’intenzione dell’autore: in analogia con quanto enunciato da Roland Barthes in tutta la sua produzione critica dal 1953 al 1980, ed in particolare nel 1968,  con l’articolo  “La morte dell’autore” per quanto riguarda la letteratura, anche nelle arti visive ci si accorge che ogni quadro è il frutto di tutta la storia dell’arte precedente; ancor di più, ci si accorge che ogni artista si ispira ai lavori di qualche altro autore storico se non addirittura contemporaneo, giungendo a dichiarare la totale indipendenza dell’opera dalla soggettività di chi la produce.

Il quarto momento di crisi si è verificato sempre alla fine degli anni Sessanta, quando sull’onda travolgente della contestazione al sistema capitalistico e borghese, il dipinto è stato visto come bene di consumo per pochi privilegiati e quindi come qualcosa da osteggiare.

La quinta crisi è quella della critica d’arte nella società tardocapitalista, come teorizzato negli studi di Luc Boltanski e di Eve Chiapello. Poiché a partire dagli anni Ottanta perse d’importanza fino a dissolversi il concetto di avanguardia, anche la funzione dei critici venne depauperata, fino al tentativo (peraltro del tutto non riuscito) di annientarla.

L’esposizione s’interroga anche sull’ulteriore divenire di questi processi nella contemporaneità, ed in particolare sulla tecnologia elettronica (rivoluzione digitale) come possibile causa di una nuova crisi della pittura o come possibile contributo al suo rinnovamento.

Più precisamente l’artista curatore Fischli s’interroga così: “Lo spettro che riappare continuamente per narrare la storia della fine della pittura è un problema fantasma? E in caso affermativo, i fantasmi possono essere reali?”.  Ed è questa una domanda che va a scomodare proprio il mondo delle fantasie di ogni singolo artista, di ogni singolo critico, di ogni singolo fruitore; mondo delle fantasie che nel linguaggio tecnico psicoanalitico lacaniano si definisce proprio “fantasma”.

Il percorso espositivo inizia al piano terra di Ca’Corner della Regina con una nuova opera dello stesso Fischli, creata apposta per l’occasione: un modello in legno dell’intero progetto, che riproduce in scala il progetto dell’intero allestimento, che però in corso d’opera ha subito qualche modifica per meglio adattare dipinti, installazioni e video all’ambiente. All’interno del plastico sono inseriti dei testi scritti in inglese dallo stesso Fischli, per illustrare ciascuna dei 10 settori del progetto che riunisce oltre 110 opere realizzate da più di 80 artisti.

Al piano terra vi sono anche due opere a metà fra la scultura, il readymade e l’installazione: la prima è fatta da un secchio incatramato con una ramazza ed un campanellino, solidali su un carrello di archeologia industriale, ed è del 47enne statunitense Theaster Gates.

La seconda, intitolata “Catapulta per bottiglie” consiste in un assemblaggio di paglia intrecciata a forma di cestino, bottiglie di vino alcune infrante contro un muro, fascia elastica, componenti elettroniche motorizzate, una struttura modellata in 3D a deposizione fusa; l’opera è stata eseguita da Kaspar Muller e Iacopo Spini nel 2020. In uno stanzino adiacente, molto piccolo e con pochissime sedie per i visitatori, vi è un video esplicativo delle motivazioni del curatore nell’organizzare l’esposizione: un’indagine sulle varie crisi attraversate dalla pittura, guidata dalla speranza di ritrovarla ogni volta rinnovata; con un’impostazione esistenzialista.

La mostra prosegue al primo piano, il piano nobile del palazzo settecentesco, dove le opere non sono esposte secondo un loro ordine cronologico, bensì in base a criteri dello stesso curatore che le ha raggruppate in dieci sezioni dai titoli intriganti.

L’aspetto uniforme e modernista dell’allestimento (effettuato tramite solidi pannelli in cartongesso bianco) è in netto contrasto con le pareti affrescate e decorate del portego (denominazione veneziana del salone centrale del primo piano): viene ottenuto così il risultato di far risaltare le diverse scelte artistiche espresse contro il linguaggio pittorico. E proprio nel portego è presentata la ripartizione dal titolo più significativo e suggestivo: “Delirium of Negation”,

dove campeggia la scenografica e sterminata opera di Jean-Frédéric Schnyder, eseguita fra il 1983 ed il 2004, cucendo a mano fra loro le pezze di stoffa che gli erano servite per pulire i pennelli. E dove risalta la grande tela dipinta nel 1973 da Jorg Immendorff, tra il realismo socialista e l’espressionismo, intitolata: “Da che parte stai con la tua arte, collega?”.

Delirio di negazione, si diceva, poiché negare l’importanza della pittura è appunto un delirio. Nella terminologia semeiotica psicopatologica, tale delirio consiste nel negare l’esistenza della propria realtà corporea (assenza di funzioni biologiche, assenza o trasformazione di organi in oggetti ad esempio di vetro) e della realtà esterna (il mondo non esiste, gli altri sono morti, il sole è spento, non esistono i colori); tale delirio è presente in particolare nelle forme di melancolia delirante con screzio paranoide.

Negare l’essenzialità e l’importanza della pittura parrebbe proprio essere accostabile ad una fase di profondo sconforto equivalente ad una sindrome psicotica conclamata, in quanto la pittura, come la musica e la danza, è nata con l’uomo, è nata e si è trasformata a partire dalle funzioni fisiologiche del corpo, funzioni portate a sublimazione dalla mente umana.  Non si vuole qui frettolosamente equiparare gli artisti (specialmente quelli che hanno negato la pittura) a dei folli (anche se il volto totalmente inespressivo e statico di Andy Wharol, ripreso nel 1979 in un video qui visibile nella sezione “Readymades Belong to Everyone” mentre ridipinge un’automobile con un assistente, ricorda molto quello di un postadolescente affetto da ebefrenia); si vorrebbe indicare piuttosto una analogia fra i processi creativi artistici e i più profondi abissi della sofferenza psichica, con lo scopo soprattutto di individuare ciò che permette, attraverso i primi, l’emersione nel mondo della cultura e la salvazione attraverso l’arte.

Così pure la sezione intitolata “Next to nothing” dichiara lo sconforto dell’andare verso il nulla, di essere prossimi a niente: i quadri qui raccolti sono monocromi, o addirittura tele bianche, o tele con poche tracce di segni isolati o anonime figure geometriche. Alla fine non può non emergere una  notevole dose di angoscia, come appunto succede nel quadro concepito nel 2019 da Puppies Puppies (bizzarro e misterioso pseudonimo, Cuccioli Cuccioli, del 32enne statunitense Gaylen Gerber)

dove risalta nero su bianco la parola “Anxiety” (ansia, inquietudine) che è appunto uno dei sottotitoli dell’opera denominata in modo più articolato: “ Dipinto per pagare le cure per la mia salute” (segue un secondo sottotitolo costituito dal nome di uno psicofarmaco antidepressivo e ansiolitico sottratto).

Sulla stessa lunghezza d’onda siamo anche nel reparto “Niente da vedere niente da nascondere”, con l’aggiunta se mai di una vaga ironia, di un irrispettoso sarcasmo, come nel lavoro di Walter De Maria, “Autoritratto di Dorian Gray”, in cui il visitatore (ma a suo tempo anche l’artista) non riesce a percepire il proprio volto che non viene ben riflesso da uno specchio fatto di una lastra d’argento poco lucida. O come “Tappeto d’ingresso” di Gili Tal, un vero e proprio tappeto collocato di fronte ad un altro lavoro di Olivier Mosset, “Porta”, eseguito nel 2002 e consistente proprio in una porta, sopra alla quale è collocato un acrilico su tela perforata di Dadamaino del 1958. Il tocco di classe, di estrema ironia, del curatore è stato quello di installare su una parete la “Porta” opera d’arte a fianco di una vera porta della sala, chiusa a chiave.

Molto politicizzata la sezione “Let’s Go and Say No” che si incentra sulla dichiarazione del rifiuto verso la commercializzazione delle opere d’arte. Tuttavia anche nell’Andiamo a Dire No si può ravvedere un atteggiamento di opponenza (tra l’altro fasullo, in quanto proprio quelle fotografie che testimoniano le proteste contro il mercato dell’arte ormai ne fanno parte e sono esposte appunto in una sede museale) che potrebbe identificare un disturbo del carattere di tipo ossessivo;

senza calcolare la tela qui esposta “Io sono un santo” scritta autografa, eseguita nel 1958 da Lucio Fontana, sul fronte: quindi un’opponenza che deraglia in uno stato d’animo classicamente megalomanico: quello di ritenersi un dio o molto vicino a Dio. Ma c’è di più: sul retro della tela c’è la scritta “Io sono una carogna”, accompagnata dai primi tagli. Nascostamente l’artista comunica una sua grande conflittualità (parlare di schizofrenia fra l’essere un santo e l’essere una carogna sarebbe eccessivo) che sfocia in un gesto di microsadismo sublimato: il tagliare, il ferire, lo squarciare il lino.

A proposito di Lucio Fontana, pur rispettando la sua illustre posizione nella storia dell’arte, non posso tacere un punto di vista completamente diverso sul significato delle sue opere più famose, quelle denominate spazialiste, connotate da tagli e buchi praticati sulle tele. Quando mi sono imbattuto in fori analoghi ai suoi, quasi identici, procurati impugnando incoscientemente una matita, da parte di un bambino di poco più di un anno sulla tela monocroma appesa ad una parete ma raggiungibile da un divano sottostante, ho avuto un’illuminazione: altro che spazialismo, si tratta di sadismo fallico, sicuramente nel bambino di uno  o due anni (che attraversa fisiologicamente quella fase dello sviluppo psico-sessuale), ma anche del grande artista, il quale, come si sostiene anche comunemente, resta per molti versi legato all’infanzia.

Merita ancora una menzione anche la sezione “Word Versus Image” in cui vi sono vari esempi di come parti di un testo divengono il soggetto principale di un quadro. Genericamente parrebbe che il pittore volesse appropriarsi del mestiere dello scrittore, forse per semplice desiderio di dilagare in un ambito in cui la comunicazione è molto più analitica, grazie proprio alle sfumature della lingua, parlata e scritta.  Se si prendono in esame i singoli lavori si vede come l’esigenza dell’autore sia quella di parlare, di comunicare dei pensieri articolati anche se confabulatori. E’ questo il caso dei pastelli (in particolare una serie intitolata “Jane Creep”, 1991) su carta di Karen Kilimnik, leggendo i quali si ha la sensazioni di trovarsi a spiare una seduta psicoanalitica, in cui il soggetto racconta i suoi incubi, o dei pensieri deliranti. In effetti la tensione del pittore verso la scrittura è presente anche nelle opere del danese Asger Jorn, che consistono in disfigurazioni  e scarabocchi degni di un bambino capriccioso, operati su dipinti antecedenti di altri, magari trovati presso antiquari, come in “Il buon pastore” del 1959.   

Si coglie l’impressione di segni che vorrebbero farsi scrittura anche nell’installazione del 2013The Big Book” di Lutz Bacher (pseudonimo di un’artista statunitense, nata nel 1943 e morta nel 2019 non si sa precisamente dove, e della quale non è mai stata rivelata la vera identità), dove alcune pennellate informali restano come una comunicazione afasica sulle pagine bianche di un libro mai scritto.

Foto di Edoardo Pilutti  edoardo.pilutti@gmail.com                                                                                  

STOP PAINTING

Fondazione Prada    Ca’ Corner della Regina

Santa Croce 2215 (San Stae), Venezia

22 maggio – 21 novembre 2021

fondazioneprada.org

ARTE, di Edoardo Pilutti

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