Luigi Filippo Tibertelli ovvero Filippo de Pisis

di Edoardo Pilutti

In alcune regioni i musei lentamente stanno riaprendo, molti con orari un bel po’ ridotti; qualcuno addirittura riduce a soltanto due i giorni di apertura settimanale, anziché i sei consueti. Le mostre che attirano più pubblico hanno lunghe liste di attesa, un po’ come gli ospedali: in effetti la cultura e la salute sono due condizioni fondamentali per l’essere parlante.

Quindi questa volta ci occupiamo di una mostra chiusa in leggero anticipo al Museo del Novecento a Milano, all’inizio della pandemia, e trasferita con largo ritardo a Roma, a palazzo Altemps, che proprio per questo sarà sfuggita a qualcuno. Si tratta della più grande retrospettiva dedicata a Filippo de Pisis, negli ultimi cinquant’anni, con oltre novanta dipinti e numerosi disegni.

Figura di grande rilievo nella cultura del Novecento e uno dei protagonisti della pittura europea tra la Prima Guerra Mondiale e gli anni Cinquanta, de Pisis presenta una biografia (raccolta in catalogo da Danka Giacon e Rossana Stellato) che sollecita a numerose riflessioni, utili nell’indagare il rapporto fra sofferenza psichica e creazione artistica.

Luigi Filippo Tibertelli nasce a Ferrara nel 1896, terzogenito del marchese Ermanno e di Giuseppina Donini, appartenente alla buona borghesia di Bologna. Il carattere severo del padre deve aver influito molto negativamente sul piccolo Gigi (così era chiamato in famiglia dai cinque fratelli e dalla sorella) e deve aver contrastato pesantemente con le attente dedizioni della madre. A tal punto che Luigi Tibertelli, da adolescente, cambierà il suo nome in Filippo de Pisis, ispirandosi alla città di Pisa da cui provenivano alcuni antenati materni.

Fin da bambino non viene fatto frequentare scuole pubbliche né collegi: la sua istruzione viene affidata, come per i fratelli, ad alcuni precettori privati che ne curano anche l’educazione morale; come da tradizione nelle famiglie nobili. Come di consueto apprende anche disegno e pittura, non solo col professor Domenichini, ma anche, di nascosto, con i fratelli Longanesi.

 Nel frattempo sviluppa una personalità solipsista, per cui non frequenta amici ma s’immerge nella lettura di romanzi, poesia (Foscolo, Leopardi, Pascoli, Stendhal, Balzac), storia, scienze naturali, in particolare botanica ed entomologia.

Già a quindici anni, abitando in un vasto palazzo nobiliare, arrederà una stanza trasformandola in un suo studio con stoffe e carta da parati, iniziando a raccogliervi farfalle, conchiglie, ceramiche, disegni, libri antichi ed altri oggetti: la definirà “una camera melodrammatica”. Donerà all’Università di Padova un erbario raccolto d’estate con l’aiuto della zia materna Emma.

L’anno seguente inizia a pubblicare articoli su riviste culturali e quotidiani locali, oltre a delle poesie, dei saggi, degli scritti autobiografici. Inizierà a tenere anche qualche conferenza, dopo essersi iscritto al liceo statale di Ferrara.

A diciassette anni, il contrasto col carattere rigido e severo del padre lo spinge a rinnegarne il nome e a darsi un nome d’arte: Filippo de Pisis, appunto.

A diciott’anni, convocato a Venezia per la visita di leva militare, viene riformato avendo simulato una malattia mentale, dopo essere stato ricoverato per qualche giorno in un ospedale. Dopo di che si iscrive all’Università di Bologna per studiare Lettere.

Nel 1917, in piena Prima Guerra Mondiale, richiamato per la visita di leva militare, viene riformato definitivamente. Nel frattempo aveva avuto modo d’incontrare personalità come Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Corrado Govoni, Umberto Saba, Alfredo Panzini.

Il 1918 è un anno di numerose pubblicazioni letterarie, tra Ferrara e Roma dove frequenta lo scrittore G. Comisso, G. de Chirico, i futuristi Prampolini, Dottori e Pannaggi, M. Broglio e Spadini.

Nel 1920 una sua mostra di pittura non susciterà alcun interesse, né di critica né di pubblico. Per vivere si adatta a fare l’insegnante di lettere nella provincia laziale.

In seguito alla morte del padre, avvenuta nel giugno 1923, Filippo decide d’impegnarsi maggiormente nella carriera di pittore, e parte per Parigi con l’esiguo aiuto finanziario della madre, sempre disposta a sostenerlo. A Parigi, nel 1925, ritroverà de Chirico ed altri amici, e conoscerà esponenti della cultura come Braque, Picasso, Matisse, Joice, Svevo, Cocteau, che manifesteranno piena approvazione per i suoi dipinti. Una sua personale riscuoterà un certo successo.

Dopo un’altra personale di successo, presentata da C. Carrà a Milano, a trent’anni verrà invitato sia alla Fondazione Bevilacqua La Masa che alla XV Biennale di Venezia, esponendovi alcuni dipinti. Filippo tuttavia è agitato, poiché gli manca il tempo per scrivere, attività che comunque praticherà per tutta la vita. In un’intervista dichiarerà di non essere fascista, suscitando sdegno e attacchi da parte della stampa del regime italiano: lo salverà solo l’intervento pacificatore del vecchio compagno di liceo Italo Balbo.

Tutte le estati vengono trascorse prevalentemente in compagnia della madre, in vari paesini del Cadore, a Cervia, Bologna, Roma. Nell’estate del ’29 è a Cavalese, in Trentino, quando la madre si ammala e, dopo un breve ricovero all’ospedale di Trento, muore. Probabilmente Filippo era legato alla madre da un rapporto simbiotico di tipo psicotico, per cui non riuscirà a superare il pur gravissimo lutto, cadendo in un periodo di melancolia.

Ne uscirà viaggiando incessantemente, quasi fuggendo dal dolore, essendo tipico di chi presenta una profonda sofferenza esistenziale lo star bene (o il credere di riuscirci) laddove non si è. E quindi va ospite da uno dei fratelli a Modena, poi a Venezia e Parigi, riuscendo anche a partecipare alla XVII Biennale di Venezia, e nel ’31 alla I Quadriennale di Roma. E poi ancora Cadore, Cesenatico e Bellaria, Firenze, Roma, Cannes. Nel 1932 trascorrerà un periodo a Venezia, esponendo alla XVIII Biennale.

Dal 1933 si trasferirà a Londra su invito di un mercante d’arte, passando comunque l’estate tra Bologna, Cesenatico, Cortina e Venezia, continuando a scrivere articoli per riviste di Milano e Genova, per tornare poi a Parigi per un anno.

Nel 1935 sarà ad esporre alla II Quadriennale di Roma, e quindi di nuovo a Londra. Un incessante peregrinare. Nel 1936 sarà a Milano per un intervento chirurgico: sarebbe importante sapere riguardo a quale patologia e di quale organo, per intendere il linguaggio del suo corpo. Le ricerche della psicoanalisi contemporanea mettono in luce i significati simbolici delle patologie somatiche, ed il godimento (inteso come commistione di piacere e pulsione di morte) che ne deriva.

Continuano i successi con l’esposizione di nove dipinti alla XX Biennale di Venezia. Partirà in seguito per un breve soggiorno a Londra, per poi rientrare a Parigi nel 1939, non mancando di fare un viaggio a Roma per la III Quadriennale e poi a Milano per una sua personale. Dopo un soggiorno a Vienna, nel 1940 decide di stabilirsi a Milano, senza rinunciare a viaggi verso Cortina, Fiera di Primiero, Bologna e Rimini. Nel maggio del 1943 rischia di essere mandato al confino dal prefetto di Milano per omosessualità (all’epoca fascista considerata reato), per una segnalazione presentata al prefetto di Milano probabilmente da alcuni giovani che si erano vendicati di una sua denuncia contro di loro, in seguito a continui furti in casa sua.

Questo evento estremamente ansiogeno, unito al bombardamento e alla distruzione della sua abitazione milanese, lo inducono a trasferirsi a Venezia, dove manifesterà per la seconda volta segni di sofferenza psichica e psicosomatica: depressione con senso di oppressione, cefalee, febbri. Allevieranno la sua solitudine vari animali domestici e soprattutto la devota nipote Bona (figlia del fratello Leone) che verrà a frequentare l’Accademia e prenderà abitazione in una casa di fronte alla sua.

Un interrogativo si pone: se in base agli studi freudiani fu dimostrato come una fobia per qualche animale è segno di nevrosi (il caso del piccolo Hans, terrorizzato dai cavalli che allora, nel 1907, erano ancora in buona parte al posto delle automobili), il suo contrario, cioè un grande amore per gli animali, propende per l’ipotesi di una strutturazione perversa della personalità?

Continuano i successi pittorici (nel 1944 la IV Quadriennale di Roma) e le numerose pubblicazioni di suoi disegni a illustrazione di varie opere letterarie, in virtù di una sua energia maniacale, in grado di tenere a bada cadute depressive. Ma continuano anche gli eventi scatenanti una depressione profonda.

Dopo il 25 aprile 1945, all’uscita da una festa mascherata è arrestato dalla polizia per schiamazzi notturni e per incongruenza fra il nome da lui dichiarato e i suoi documenti, intestati a Luigi Tibertelli. Riemerge con vigore il rifiuto del nome del padre e la problematica che portò a tale scelta.
Durante l’estate è ad Auronzo e quindi a Cortina, da dove verrà espulso dalla polizia per i suoi comportamenti.
L’11 gennaio 1946 il “Gazzettino” di Venezia riferisce un’aggressione a de Pisis nel suo appartamento da parte di cinque banditi.

Nell’estate del 1947, nonostante i soggiorni in Alto Adige, a Verona e sul lago di Garda, accompagnato dalla nipote Bona, è disturbato da vari sintomi psicopatologici: si trasferirà per un anno a Parigi con la nipote, cercando serenità; ma alla fine del 1948, per l’aggravarsi del suo patimento è costretto a tornare a Venezia, dove però subirà un altro evento estremamente frustrante: ricevuta la candidatura al gran premio della Biennale (dove esponeva ben trenta tele eseguite fra il 1926 ed il 1948), non potrà ottenerla poiché un telegramma democristiano da Roma ne proibisce il conferimento a lui in quanto omosessuale.

Per il peggioramento dei suoi sintomi (cefalee, tremori, amnesie, insonnia severa) nell’ottobre 1949 si rende necessario un primo ricovero in una clinica per malattie mentali, a Brugherio, vicino a Monza, ed un secondo nella Clinica Neurologica dell’Università di Bologna.

Le due biografe (Giacon e Stellato) sostengono che l’artista fu sottoposto a terapie sbagliate in seguito a errori diagnostici. Ancora oggi, nel prendere in esame un caso clinico, vi sono divergenze di pareri diagnostici fra diversi esperti (psichiatri, psicologi clinici, psicoanalisti); divergenze dipendenti dalla formazione degli esperti. Figuriamoci negli anni Quaranta e Cinquanta.

Comunque, nonostante o forse anche a causa della pressoché costante permanenza a Villa Fiorita (la clinica di Brugherio) nella prima metà degli anni Cinquanta, il suo stato di salute psichica si aggrava in modo irreversibile. Filippo morirà il 2 aprile 1956 a Milano, ospite dal fratello Francesco, un mese prima di compiere sessant’anni.

De Pisis ci ha lasciato un patrimonio pittorico ricco di capacità d’introspezione, per quanto riguarda i ritratti, e di grave leggerezza e profonda soavità per quanto riguarda gli scorci monumentali urbani ed i paesaggi con oggetti anche archeologici.

Ci lascia ancora aperto il quesito sul rapporto fra genio e follia, fra creatività sublime e alta sregolatezza, poiché le ipotesi avanzate nel corso del presente articolo sono appunto delle ipotesi basate sulla sua biografia.

fotografie di Edoardo Pilutti  edoardo.pilutti@gmail.com

FILIPPO DE PISIS

A cura di Pier Giovanni Castagnoli

Catalogo Electa, 232 pagine, euro 29,00

ARTE, di Edoardo Pilutti

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