59° Biennale d’Arte Eventi
Eventi Collaterali Venezia
di Edoardo Pilutti
A distanza di oltre un mese dalla chiusura della 59° Biennale di Venezia, intitolata Il latte dei sogni, sono ancora vivi i ricordi di alcuni fra i 31 Eventi Collaterali ammessi dalla curatrice Cecilia Alemani come corollario delle esposizioni principali.
Le mostre collaterali, promosse da enti e istituzioni nazionali e internazionali, erano allestite in numerose sedi della città di Venezia, e proponevano opere di pittura e scultura che spaziavano dal linguaggio neometafisico e realista magico, all’astratto; sempre appariscente era la collocazione dei dipinti e delle sculture nello spazio espositivo prescelto, anche per un apparente contrasto, talvolta, tra le opere contemporanee e l’architettura di alcuni secoli fa.

Ad esempio, nella mostra I am spacious, singing flesh, l’allestimento dei dipinti e delle statue di Claire Tabouret era perfettamente in sintonia con l’architettura di Palazzo Cavanis, al 920 di Dorsoduro, che lo ospitava. Si trattava di un’armonia eclatante, solare, straordinaria, che l’istituzione organizzatrice, la spagnola FABA Fundazión Almine Y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte, è riuscita ad ottenere senza difficoltà, grazie alla classica bellezza del giardino interno ed alla classica familiarità delle sale del palazzo stesso.
La mostra prendeva il titolo da un brano del saggio Il riso della Medusa (1975) di Helène Cixous: “Sono carne spaziosa che canta, su cui si innesta nessuno sa quale io più o meno umano, ma vivente perché in trasformazione”. Claire Tabouret, artista francese che vive e lavora a Los Angeles, ha ritenuto l’inizio di tale frase indicativa del suo progetto che rappresentava vari stadi di trasformazione della soggettività femminile e delle identità di gruppo femministe.

Accanto a dipinti raffiguranti gruppi di donne e a qualche autoritratto, vi erano anche due sculture in tufo risalenti al periodo tra il VI ed il III secolo A. C. Si trattava di due divinità arcaiche dell’aurora e della fecondità ritrovate nel 1845 a Petrara, presso l’antica Capua, vicino ad altri elementi architettonici con iscrizioni in osco, antica lingua italica preromana. Nel febbraio 2022, l’artista ha dato alla luce il suo primo figlio, sperimentando una sorta di sdoppiamento, percependo di essere anche “il luogo dell’altro”. Ma, ben lungi dallo sprofondare in una psicosi post puerperale ha continuato a produrre ricerca artistica, volendo affiancare al proprio lavoro delle statue arcaiche raffiguranti delle maternità.

A Palazzo Cavanis vi erano altri quadri che mostravano creature strane, a volte come fluttuanti in un liquido amniotico, o come esiti di una miracolosa incarnazione sospesa nella nebbia. In La Pieuvre (2015), la figura femminile ritratta suscitava associazioni di pensiero che vanno dalla rappresentazione di una qualche mostruosità a quella di una sorta di supereroe, a quella di un rituale sadomasochista.
Soggettività erranti ma anche ricche di un potenziale sospeso, che si percepiva straordinariamente nelle statue dal valore monumentale collocate nel giardino: un trionfo di metafisica contemporanea, dove il tempo viene fermato su un momento di soddisfatta serenità che viene fatto durare in eterno.

All’interno della Chiesa di Santa Maria della Visitazione, sulle Fondamenta Zattere ai Gesuati, si potevano scoprire le opere di Rony Plesl, nella mostra Trees Grow from the Sky / Gli alberi crescono dal cielo, organizzata dalla House of Art Ceske Budejovice della Repubblica Ceca.
Costì il carattere sublime delle sculture in cristallo si fondeva con la gioiosa purezza di uno spazio che risale al primo Rinascimento.
La triade di cilindri verticali al centro della navata era stata formata in base ad impronte dei tronchi di alberi viventi, e avrebbe voluto suggerire la tesi francescana, ora anche delle scienze più avanzate come la neurobiologia vegetale, della complementarità e della similitudine tra mondo vegetale, mondo minerale e mondo animale, al cui interno l’uomo pretende di dominare.
In fondo, nel presbiterio di fronte all’altare, giaceva orizzontalmente l’ultima scultura realizzata in lucente vetro all’uranio, color smeraldo: un quarto simulacro di tronco d’albero, ricoperto da un bassorilievo raffigurante a ripetizione il corpo di Gesù Cristo, che ricorda con un tocco surreale le epiche colonne della classicità romana.
Tutta l’installazione, così collocata dentro alla chiesa, induceva ad una pura quiete e ad una riflessione esistenziale, per cui, attraverso la contemplazione delle sculture luminose e traslucide, i visitatori venivano portati sulla strada di una genuina introspezione e di una più coraggiosa visione della complessità del mondo e del ruolo dell’uomo.

Imperdibile, anche se difficile da trovare in un dedalo di calli a Dorsoduro in Corte Zappa, e ignota anche a molti veneziani abitanti di quel sestiere, è stata l’installazione performativa Angels Listening, presso la settecentesca Loggia del Temanza, organizzata dal Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena, ideata e realizzata da Rachel LeeHovnanian, per la cura di Annalisa Bugliani.
Un’installazione performativa concepita come uno spazio meditativo e immersivo per riflettere su sé stessi, sulla comunicazione con gli altri, sulla propria psiche. Oltrepassato il pronao tetrastilo con ante laterali, all’interno del corto edificio, a piano terra si veniva accolti dai busti di sette angeli di grandi dimensioni fusi in bronzo bianco; le figure di cherubini avevano scolpiti sulla bocca due brandelli di nastro adesivo, come ad essere impediti nel parlare.
Gli angeli silenziosi, creature di natura sia umana che divina, intenti all’ascolto degli umani per aiutarne il progresso spirituale, erano stati collocati attorno ad un confessionale d’argento intitolato “La Scatola Catartica”.
Angels listening sfidava i visitatori a rivelare dei loro pensieri taciuti, repressi per paura del giudizio degli altri; offriva uno spazio che trasformava centinaia di voci messe a tacere in un coro di confessioni scritte, permettendo una sorta di catarsi grazie anche alla santità del luogo.
Nel freddo silenzio di fine novembre, all’interno dell’intimo edificio, si veniva invitati da un cartello ad avvicinarsi a entrambi i lati del confessionale, a prendere uno dei tanti foglietti bianchi lasciati su un vassoio, a scriverci sopra qualcosa che non si era potuto dire in qualsiasi altra importante occasione, a lasciare il proprio messaggio dentro a una cassetta preposta, a suonare una campana tibetana appoggiata lì accanto, a prendere un telo bianco su cui posizionarsi nel giardino esterno per riflettere.

Sulle coperte lasciate distese sull’erba del parco sarebbero poi state incollate le strisce di carta con le frasi segrete del pubblico, scritte in varie lingue. Il giardino era quello di Ca’ Zenobio degli Armeni, palazzo tardo-barocco che in quei giorni era chiuso al pubblico, e proprio per questo offriva al vasto e semideserto cortile una magica e misteriosa cornice.
fotografie di Edoardo Pilutti edoardo.pilutti@gmail.com
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