59° Biennale di Venezia – Arsenale

Il latte dei sogni

di Edoardo Pilutti

Si è chiusa domenica 27 novembre 2022 la 59° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Il latte dei sogni, a cura di Cecilia Alemani. Quest’anno si è registrata un’affluenza record di pubblico, con oltre 800.000 biglietti venduti, cui si aggiungono le 22.498 presenze durante l’inaugurazione.

 I visitatori hanno segnato un aumento del 35% in 197 giorni di apertura, rispetto ai 173 giorni dell’edizione del 2019. Anche considerando la più lunga durata della Mostra, l’aumento è sostanziale, in particolar modo in vista delle restrizioni degli spostamenti imposte dalla pandemia soprattutto per i paesi asiatici: si tratta della più alta affluenza di pubblico nei 127 anni di storia della Biennale di Venezia.

Il pubblico proveniva per il 59% dall’estero e per il 41% dall’Italia.

Straordinaria la presenza di giovani e di studenti che sono stati 239.276, pari al 30% degli ingressi totali. I visitatori organizzati in gruppo hanno rappresentato il 14% del pubblico complessivo.

Curatore Cecilia Alemani; per gentile concessione della Biennale di Venezia

La curatrice Cecilia Alemani da parte sua ha dichiarato: “Le 800.000 persone che sono venute a visitare Il latte dei sogni dimostrano che l’arte ha il potere di creare partecipazione e che, dopo tanti mesi di isolamento, vogliamo celebrare e vedere l’arte di persona, in un’esperienza gioiosa e comunitaria condivisa con tanti amici, famiglie, colleghi e amanti dell’arte. In tempi come questi, come dimostra chiaramente la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti possono aiutarci a immaginare nuove modalità di coesistenza e infinite possibilità di trasformazione.”

Non si può più dire quindi che l’arte riguarda una piccola minoranza, come si è sentito dire talvolta da qualche uomo politico: proprio in tempi in cui la politica non solo non riesce a fornire risposte soddisfacenti, ma allontana da sé sempre più gente (vedi i record di astensionismo alle elezioni), forse si cerca nell’arte qualche risposta alle difficili domande che l’esistenza umana pone.

Per tutto questo insistiamo nel soffermarci ancora sulla disamina di alcune proposte fatte dalla 59° Biennale d’Arte, in particolare quelle presentate all’Arsenale.

Ficre Ghebreyesus, Nude with Bottle Tree, 2011

Riflessivi ed allo stesso tempo esuberanti appaiono i dipinti di Ficre Ghebreyesus (1962, Asmara, Eritrea – 2012, New Haven, USA) che elabora i ricordi e le conflittualità sofferte da bambino in Africa. Nato da una famiglia coopta, all’inizio della difficile guerra d’indipendenza del paese dall’Etiopia, guerra durata trent’anni, dal 1961 al 1991, Ghebreyesus lascia da adolescente l’Eritrea e si stabilisce come rifugiato  nel Connecticut. A New Haven apre assieme ai fratelli un famoso ristorante di cucina etnica e si dedica anche all’arte, iscrivendosi al Master of Fine Arts di Yale.

Quando morì nel 2012 la maggior parte dei suoi dipinti non era mai stata esposta. Uno dei suoi quadri, Nude with Bottle Tree, mostra una figura accanto a un albero in un paesaggio densamente articolato: rappresenta l’antica usanza congolese di abbinare contenitori vuoti ai rami degli alberi come mezzo per allontanare gli spiriti maligni. Sul lato destro della tela compare un’altra figura che regge degli strumenti musicali e che ricorda le sculture yoruba di uomini a cavallo.

Rosana Paulino, dalla serie Senhora das Plantas, 2015 -2021

Rosana Paulino (Sao Paulo, 1967) analizza alcuni aspetti della pratica colonialista e razziste che è stata conseguente all’imperialismo europeo ed al commercio di schiavi. I disegni della serie Wet Nurse (2005) esaminano il ruolo di donne nere che allattavano i figli del padrone: un groviglio di vene che si diramano da seni arrossati spunta dai capezzoli a indicare il latte e a suggerire gocce di sangue.

La serie Senhora das plantas (2019) ritrae radici e piante che si diramano da corpi femminili. Nella serie Weavers (2003), dai seni, dalle vagine dagli occhi e dalle bocche di donne spuntano radici che le avvolgono e sembrano torturarle.

Roberto Gil De Montes, El Pescador, 2020

Roberto Gil de Montes (1950, Guadalajara, Messico) si trasferisce da bambino da Guadalajara a Los Angeles in un quartiere centro del movimento chicano. I dipinti che l’artista inizia a produrre dopo il diploma all’Otis College of Art and Design presentano elementi frammentati con colori vitali in composizioni frontali. Il suo è un immaginario ricco di incongruenze, dì fraintesi e di tensioni pulsionali, dove si colgono sia un’apologia dell’assurdo che il rispetto per gli umili. Con un’ingenuità illuminante.

Il dipinto a olio El Pescador (2020) ironizza sulla Nascita di Venere di Sandro Botticelli  (1484 – 1486 circa), sostituendo la figura della dea, che nell’originale si erge da una conchiglia gigante, con la raffigurazione di un giovane pescatore sdraiato.

Felipe Baeza, Don’t draw attention to yourself, you are already. 2022

Felipe Baeza (1987,Guanajuato, Messico; vive a New York), esegue dipinti e collage profondamente intimi, quasi una forma di fantasioso autoritratto  o un’ipotesi di uno stravagante futuro. Per mezzo di tempere all’uovo e materiali vari, personaggi appartenenti a fantastiche forme di vita prendono consistenza attraverso corpi spesso metà uomini e metà vegetali, ritratti in dinamiche di trasformazione. Da teste umane prorompe un ricco fogliame che si impossessa di tronco e arti e si fa inesorabilmente strada dentro e fuori bocche aperte.

I nuovi lavori in mostra sono la prosecuzione di una serie alla quale l’artista lavora dal 2018. Come è ravvisabile dalle anatomie ben definite e riccamente strutturate, Baeza costruisce le sue figure con strati di inchiostro, colori acrilici e carta collage, per poi levigare il tutto.

Noah Davis, Isis, 2009

Noah Davis (Seattle, 1983 – Ojai, USA, 2015) osserva la vita contemporanea afroamericana attraverso una lente spesso melanconica. Richiamandosi ad una generazione precedente di artisti americani, la sua opera è parimenti influenzata dalla figurazione di Marlene Dumas e Luc Tuymans.

L’olio e acrilico su lino, Isis, del 2009 ritrae la moglie Caron in un costume dorato con due grandi ventagli dispiegati come ali, nelle vesti della dea egizia della magia. The Conductor del 2014 fa parte di una serie dedicata a un quartiere popolare di Los Angeles: raffigura un uomo in smoking che dirige un’orchestra invisibile sconfinando nuovamente nel surreale. I lavori di Davis testimoniano un approccio in cui la pittura, con l’ironia del Realismo Magico, si affaccia su ricordi personali, sulla storia, e su mondi  fantasmatizzati.

Allison Katz, Portrait of the Artist as a Young Girl(s), 2022

I dipinti di Allison Katz (1980, Montreal, Canada) esprimono un mordente irriverente e curioso, attraverso una virtuosistica padronanza delle tecniche pittoriche, attingendo ad un vasto panorama di riferimenti letterari e cinematografici.

Nell’olio su lino Portrait of the artist as a Young girl(s) (2022) si vede un triplice autoritratto dell’artista fotografata da bambina, che evoca sia la favola di Cappuccetto Rosso, sia l’occulta protagonista della pellicola A Venezia… un dicembre rosso shocking, sia uno stato psicopatologico di scissione multipla di personalità. Nell’insieme tutte le opere presenti, tutte di esecuzione recentissima, propongono figure sospese tra finzione e stati d’animo reali.

Louise Bonnet davanti ad un suo dipinto

Caratterizzate da tonalità splendenti, le grandi tele surrealiste di Louise Bonnet (Ginevra, 1970; vive a Los Angeles) faticano a contenere le figure che si tendono e si rannicchiano al loro interno. Sono figure di corpi che danno impedimento, che sembrano voler ingannare, e che spesso emettono fluidi come saliva, sangue, urina, sperma o latte.

Per la Biennale, Bonnet ha realizzato Pisser Triptych (2021–2022), un trittico dalle dimensioni di una pala d’altare. L’opera fa riferimento ai cicli di consumo e di scarto messi in atto dagli gli esseri umani che sfruttano e trasformano la natura, producendo continuamente delle scorie. In particolare, la pittura di Bonnet è focalizzata sulle emissioni corporee sempre più numerose e consistenti per l’aumentare della popolazione mondiale: tali emissioni concorrono a inquinare l’ambiente ma potrebbero anche contribuire a fertilizzarlo. Ma sempre meno l’uomo occidentale dimostra di saperle gestire nell’interesse del mondo, del pianeta Terra.

Il lavoro di Bonnet è anche volto a studiare il rapporto tra lo psichico ed il fisico, senza censura di alcun dettaglio anatomico, anche esplorando la vulnerabilità associata alle aperture dei corpi.

Oltre alla predominanza di pittura surrealista e realista magica, all’Arsenale sono stati presentati innumerevoli video, fra cui indimenticabile per la sua bizzarra originalità è apparso quello di un artista cinese.

Zheng Bo, Pteridophilia, 2016

La pratica artistica di Zheng Bo (1974, Beijng, Cina) è improntata all’impegno ecologico ed esplora sorprendentemente inimmaginabili opportunità di relazioni erotiche fra esseri umani e mondo vegetale. Dopo essersi dedicato allo studio delle piante, seguendo insegnamenti di biologi, botanici e neurofisiologi vegetali, Zheng tende a realizzare un mondo alternativo di interconnessione tra tutti gli esseri viventi.

Già nel 2018 era stato vittima di accese polemiche in seguito alla proiezione di un suo video, Pteridophilia, nell’Orto Botanico di Palermo, una delle sedi per Manifesta, la Biennale europea nomade, nata in Olanda ad Amsterdam. Quel video, ambientato in una foresta taiwanese, mostrava momenti di effusioni amorose, lasciando nel sonoro anche gemiti di piacere, tra alcuni giovani e delle felci, piante pteridofite.

Nell’opera esposta all’Arsenale di Venezia, viene proposta la performance Le Sacre Printemps (2021), video di 16’ e 17’’. Zheng Bo riprende l’esibizione di cinque danzatori scandinavi sparsi in una foresta della contea di Dalarna, in Svezia. Qui la compagnia ha messo in scena rapporti corporei eccentrici che si sono spinti oltre le felci, esaudendo le pulsioni sessuali attraverso il contatto anche con muschi, licheni, pini e larici.

La pellicola è proiettata capovolta, in modo tale che gli stravaganti e ritmici movimenti dei corpi nudi tra il verde abbiano un minore impatto sul pubblico e siano assimilabili ad un’immersione panica dannunziana. E dunque, ciò che potrebbe essere un inedito capitolo di psicopatologia delle perversioni sessuali, la confricazione vegetale, diviene una creazione di grande e struggente poesia: con suggestioni mitologiche.

Marko Jakse, Padiglione Slovenia, 2022

Dopo la fine delle Corderie dell’Arsenale, alle Gaggiandre e alle Tese, vi sono ancora alcuni padiglioni nazionali: in quello della Slovenia campeggiano le grandi tele di Marko Jakše (1959, Lubiana) che ci suggerisce fantasiose prospettive cosmiche.   Immerse in una dimensione onirica, emergono dai dipinti visioni curiose e segrete di altri mondi costituiti da paesaggi archetipici e da architetture senza tempo, dove il silenzio si fonde con il grido, la realtà con la metafisica e il sacro col bestiale.

Qui, entità paradossali e contrastanti stabiliscono complesse relazioni con simboli e reliquie di civiltà passate, con la spiritualità, con la mitologia e con la storia dell’arte: ermafroditi e fantasmi, anime urlanti e creature ibride, provenienti da dimensioni oniriche, da luoghi sconosciuti dello spazio e del tempo, dialogano tra loro attraverso posture rituali.

Pad. Italia, Gian Maria Tosatti

Alle Tese delle Vergini il Padiglione Italia appariva assediato da una lunghissima coda di visitatori in attesa del proprio turno d’ingresso: per volontà dell’artista si poteva entrare soltanto uno o due alla volta. Soprattutto col freddo di novembre, il disagio è stato grande, durante l’ora di attesa, in piedi, avvolti dall’umidità.

Assegnato interamente ad un solo artista, Gian Maria Tosatti, per la cura di Eugenio Viola, il Padiglione Italia ha presentato l’opera Storia della Notte e Destino delle Comete: una grande installazione ambientale che occupava l’intera superficie del padiglione, e proponeva una visione dello stato attuale della civiltà industriale e delle sue prospettive future.

Il percorso di visita, non poco perturbante in quanto contemporaneamente familiare e angosciante, aveva l’obiettivo di offrire una consapevolezza nuova e generare riflessioni sui possibili destini della civiltà umana industriale, affinché non si ripetano gli errori del passato ma si possano concretizzare dei bei sogni per il futuro.

Il progetto di Tosatti fa riferimento all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (sottoscritta nel settembre 2015 da 193 Paesi membri del ONU), toccando temi quali la salute e l’istruzione delle future generazioni, la tutela della natura, lo sviluppo sostenibile rispetto al territorio, e l’individuazione di modelli etici di produzione, consumo e profitto.

La nostra nazione, interessata da una straordinaria crescita economica, il “miracolo italiano” del secondo dopoguerra, offre lo scenario per la costruzione di questo progetto espositivo. Lo spazio della prima Tesa costituisce un viaggio nel Bel Paese e coincide con la Storia della Notte, ovvero il racconto della crescita economica italiana negli anni Sessanta attraverso una sequenza di scenari spiazzanti, dai laboratori di fabbriche tessili ai capannoni in eternit che hanno distrutto il paesaggio di mezza Italia e fatto morire di cancro migliaia di operai.

La visione finale, il Destino delle Comete, ricordando inizialmente come la natura oltraggiata non perdoni l’uomo, e auspicando di non cadere nella rete del nuovo fascismo, il neocapitalismo, è portatrice di un messaggio di speranza sul destino che attende questa umanità la quale, come una cometa, ha attraversato il cielo con una grande scia luminosa.

fotografie di Edoardo Pilutti                   edoardo.piutti@gmail.com

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