59° Biennale d’Arte di Venezia – Giardini/1

Il latte dei sogni

di Edoardo Pilutti

Inaugurata a fine aprile, prosegue a Venezia fino al 27 novembre la 59° Esposizione Internazionale d’Arte, allestita prevalentemente ai Giardini e all’Arsenale. Oltre a queste due sedi principali, vaste ciascuna come un paesino di un migliaio di abitanti, alcune Partecipazioni Nazionali sono dislocate in varie sedi e palazzi del centro storico: inoltre tra calli e campielli vi sono altri 31 Eventi Collaterali, organizzati da enti nazionali ed internazionali, ammessi dalla curatrice Cecilia Alemani. Tali esposizioni collaterali arricchiscono il già strabiliante pluralismo di voci che caratterizza la 59° Biennale d’Arte.

«La mostra prende il nome da un libro dell’artista surrealista Leonora Carrington (1917-2011), che negli anni Cinquanta in Messico immagina e illustra favole misteriose, dapprima direttamente sui muri della sua casa, per poi raccoglierle in un libricino chiamato appunto “Il latte dei sogni. Un libricino che descrive un mondo magico nel quale la vita è costantemente inventata attraverso l’immaginazione, e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé.

Raccontate in uno stile onirico che pare terrorizzasse adulti e bambini, le storie di Carrington immaginano un mondo libero e pieno di infinite possibilità, ma sono anche l’allegoria di un secolo che impone sull’identità una pressione intollerabile, forzando la stessa Carrington a vivere come un’esiliata, rinchiusa in ospedali psichiatrici, perenne oggetto di fascinazione e desiderio ma anche figura di rara forza e mistero, sempre in fuga dalle costrizioni di un’identità fissa e coerente.» (Cecilia Alemani)

Ancora una volta abbiamo una prova di come l’arte sia in osmosi con la sofferenza mentale, con la follia. E come l’arte è uno dei piani più elevati raggiunti dall’essere umano, così la cosiddetta follia non va stigmatizzata ma accolta come il derivato di conflitti profondi, intrapsichici, interpersonali e sociali, forieri talvolta di cambiamenti utili all’umanità.

Valga per tutti il caso del medico ungherese Ignaz Semmelweis (Buda 1818 – Dobling, Vienna 1865), professore associato alla clinica ostetrica del più grande ospedale di Vienna, che scoprì l’origine infettiva, dovuta al non lavarsi le mani da parte dei medici, della febbre puerperale che portava a morire il 40% delle partorienti.

I più grandi ginecologi dell’epoca considerarono l’ipotesi di Semmelweis alla stregua di un vaneggiamento.

L’ostilità del potere accademico fu tale che Semmelweiss venne persino allontanato dalla clinica dove aveva sperimentato la correttezza della sua intuizione. Lui tentò con toni sempre più accesi e minacciosi di farsi ascoltare dalle istituzioni scientifiche, ma fu sempre più emarginato e si ritrovò davvero disperato. Amareggiato anche da dolorose vicende familiari, cadde in depressione, e fu internato in ospedale psichiatrico vicino a Vienna, dove morì per le percosse dei guardiani a soli 47 anni.

Solo pochi anni dopo, quando Pasteur fondò la batteriologia, fu finalmente possibile riconoscere che era stato un geniale precorritore.

La 59° Esposizione Biennale di Venezia parte da alcune domande emerse da numerose conversazioni intercorse fra la curatrice e molti artisti, fra cui emergono le due principali: quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, di altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi? I tentativi di risposta si concentrano attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra individui e tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra.

Il Presidente Roberto Cicutto conclude: «L’obiettivo della 59° Biennale d’Arte pare essere la reinvenzione di nuove e più sostenibili relazioni fra gli individui e tutto ciò che popola l’universo in cui viviamo. Questa 59° Mostra propone nuove armonie, convivenze finora impensabili e soluzioni sorprendenti, proprio perché prendono le distanze dall’antropocentrismo…                                    

Vi è una maggioranza di artiste donne e soggetti non binari (che non solo non si identificano col loro sesso biologico, ma proprio rifiutano la differenza di genere, n.d.r.), una scelta curatoriale che condivido poiché riflette la ricchezza della creatività dei nostri giorni».

Fin qui una sintesi del progetto curatoriale: veniamo ora ad alcune impressioni e sensazioni generate dalla visita ad alcuni dei padiglioni dei Giardini.

È straordinario come ogni volta (ricordiamo che da trentaquattro anni vi è l’alternanza annuale fra arti visive ed architettura) i Giardini siano popolati ogni giorno da centinaia, migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo: liberi professionisti, insegnanti, artisti, galleristi, studenti, giornalisti, intellettuali. Tutti che sciamano da un edificio all’altro: i padiglioni, di proprietà dei vari stati e costruiti secondo differenti stili a partire dai primi del Novecento fino agli anni Sessanta, sono collocati a debita distanza fra di loro e intervallati da siepi, arbusti, alberi secolari di portamento monumentale e prati con gente distesa a riposarsi.

In ogni padiglione c’è qualcosa di diverso, di stravagante, decisamente bizzarro; da qualche parte c’è anche un sottofondo musicale, dei suoni: ma non verrà in mente a qualcuno di proibire anche questi raduni così numerosi?

Nel Padiglione Spagnolo, il primo più vicino all’ingresso, è stato lasciato un vuoto spaesante: le pareti dipinte di fresco e disposte in modo da creare l’inizio di un labirinto, non contengono alcuna opera: forse alludono al vuoto di idee che contraddistingue i potenti chiusi nel loro egoismo, ed al rischio di perdersi in esso per tutti coloro i quali si identifichino con quel vuoto.

Il Padiglione Belga presenta una serie di filmati che riprendono bambini intenti ai loro giochi di gruppo in varie parti del mondo, dal Messico alla Svizzera, in tutti i continenti. Nelle didascalie vengono messi in luce le funzioni immaginarie e simboliche dei diversi sistemi di regole del gioco: un’opera di elevata antropologia culturale ed encomiabile psicopedagogia.

Il Padiglione Olandese offre una ricerca, attraverso fotografie storiche e video di performance, sul colonialismo e sull’imperialismo dei secoli passati, mettendo in luce il pregio della vita lontano dalla civiltà occidentale e la vergogna delle attività predatorie europee. Inoltre, suggerisce di guardare le cose da una nuova angolatura, permettendo si salire su un pulpito inclinato, raggiungibile solo circumnavigando l’edificio esternamente, sull’erba e fra le piante.

Ci si addentra quindi nel vastissimo Padiglione Centrale, sopra il cui portale, infisse sul cornicione, campeggiano sculture raffiguranti pesci assurdamente addobbati da oggetti impertinenti.

Nel primo salone, la sala della cupola il cui soffitto è decorato dagli affreschi simbolisti eseguiti da  Galileo Chini nel 1921, si viene accolti da una statua che rappresenta iperrealisticamente un elefante africano, la cui immagine è moltiplicata da vari specchi posti sulle pareti, che rimandano la figura del pachiderma assieme a quella dei visitatori… Un monito riguardo al rischio di estinzione di alcune specie animali, uomo compreso?

Fra le centinaia di opere esposte nelle altre numerose sale, destano particolare interesse dipinti surrealisti del Novecento, fra cui si distinguono quelli eseguiti da Leonor Fini e Jane Graverol, capaci di rappresentare una donna fiera e decisa, addirittura dominante sull’esemplare di maschio ai suoi piedi. Jane Graverol in particolare riempie i suoi quadri di angeli e draghi, o altre creature alate o mitologiche: in particolare in L’Ecole de la Vanité del 1967 sullo sfondo è raffigurata una sfinge che restituisce un’immagine femminile mostruosa ma consapevole della propria sessualità.

Appaiono misteriose, anzi misteriche, le sculture della siriana Simone Fattal, formatasi prima in Libano e poi all’Università Sorbonne di Parigi. La scrittrice e artista neo-ottantenne, rappresentata dalla galleria Kaufmann Repetto di Milano, ha creato un’installazione di sculture in bronzo e ceramica che uniscono elementi astratti ad elementi antropomorfi. L’installazione si trova nel giardino interno al padiglione Centrale, giardino progettato da Carlo Scarpa nel 1952, giardino che, con le sue vasche d’acqua, ha richiamato alla Fattal lo scorrere del fiume Tigri in Mesopotamia, ed in particolare il giardino dell’Eden, portandola a collocarvi due statue intitolate Adamo ed Eva, ed altre che evocano figure monacali in cammino.

Tornati a girovagare all’esterno, fra i padiglioni nazionali, colpisce (oltre a quello della Russia, chiuso a  causa dell’attuale guerra), il Padiglione della Germania: è anch’esso completamente vuoto (come quello della Spagna), e inoltre presenta degli incomprensibili scavi verso le fondamenta, oltre a qualche area sulle pareti in cui è stato scalpellato via l’intonaco.

Se non si conoscesse il progetto dell’artista, Maria Eichhorn, che è stato quello di mostrare il congiungimento dell’originaria costruzione bavarese eretta nel 1909 con l’ampliamento nazista del 1939, si potrebbe pensare a ben altri significati; ad esempio ad un qualche tentativo di ricerca archeologica, che potrebbe alludere alla ricerca che ogni essere umano dovrebbe fare in sé stesso, attraverso un’analisi del profondo, dell’Inconscio, per sfuggire alla pochezza ed alla vacuità di tanti modi d’essere, soprattutto quelli di moda.

fotografie di Edoardo Pilutti                                          edoardo.pilutti@gmail.com

59° esposizione Internazionale d’Arte

Il latte dei sogni

Venezia, Giardini

fino al 27 novembre 2022

http://www.labiennale.org

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