17° Biennale di Architettura

Partecipazioni Nazionali

Giardini – Venezia, 2021

di Edoardo Pilutti

“L’architettura è l’ordinamento di correlazioni mediante l’interazione con i significati dello spazio”. Oppure: “Architettura è il processo di creazione di risposte e contributi al futuro del sistema. L’architettura non è un oggetto in sé: è qualcosa di attivo. Architettare.”

Questi aforismi tratti dalla rivista cartacea distribuita nel padiglione della Germania (peraltro lasciato completamente vuoto, in un allestimento minimalista e autosarcastico, in cui due video posti all’ingresso danno appuntamento al 2038) ai Giardini, confermano l’impressione generale data dalla 17° Esposizione Internazionale di Architettura, intitolata “Come vivremo insieme?”: gli architetti ormai sconfinano nei campi della filosofia, della sociologia, dell’antropologia culturale, della politica, dell’archeologia, della psicoanalisi, della biologia, della fisica, della geologia, della meteorologia, oltreché (ma questo da sempre) dell’ingegneria, dell’arte e dell’artigianato.

   In effetti, proprio un filosofo tedesco, nell’Ottocento, aveva auspicato e preconizzato la caduta delle barriere professionali e della divisione del lavoro; soprattutto della divisione tra il lavoro fisico, manuale, e quello intellettuale (Karl Marx, Scritti Giovanili). Non credo che gli architetti di oggi siano tutti marxiani, fatto sta che certe teorie impossibili da realizzare nonostante vari, anche fallimentari, tentativi rivoluzionari, pare siano state recepite e metabolizzate dagli architetti contemporanei, col passare dei decenni, anzi, di quasi due secoli.

Appena entrati nella vastissima area espositiva (se fosse un borgo avrebbe un migliaio di abitanti, sparsi nei molti edifici straordinariamente di vari e differenti stili, immersi in un bosco di platani, lecci, olmi, querce, pini e cedri) si viene accolti dal padiglione della Spagna, in cui si viene inghiottiti da una nuvola di fogli sparsi e sospesi ordinatamente nello spazio, a significare l’incertezza: “INCERTEZZA” è appunto il titolo del lavoro presentato dagli architetti iberici. Ma l’intendimento del progetto spagnolo è quello di trasformare le ineludibili insicurezze individuali in soluzioni collettive che funzionino.

Appresso, il padiglione dell’Olanda espone varie dichiarazioni in cui si prefigge di ricercare “Valori per la sopravvivenza” e di dialogare con la politica, attraverso “… valori progettuali capaci di trasformare le dinamiche attuali – spesso improntate a logiche di sfruttamento – in forme di coesistenza egalitarie e non predatorie”. L’obiettivo è quello di mitigare con urgenza le crisi climatiche e progettare uno sviluppo urbano equo, dettato da reciproche relazioni di cura tra gli uomini e fra uomini e animali, con protezione anche delle specie arboree  e vegetali.

   Quindi nel Padiglione Centrale, curato da Hashim Sarkis, sono presenti tutti i temi dell’attualità mondiale: dallo studio dello scioglimento dei ghiacci polari, alle riprese cinematografiche delle danze tribali e di altri momenti di vita di popolazioni conservatesi a livelli primitivi di civiltà, ma in rispettoso equilibrio con l’ambiente naturale; dagli spostamenti delle popolazioni migranti all’integrazione fra natura e costruzioni umane. Nel primo salone si viene accolti da un insieme di ceppi di alberi sovrastati da oscure pietre sospese nell’aria, che scendono dalla cupola affrescata in stile Liberty da Galileo Chini; si prosegue in vari saloni, alcuni improntati a immaginazioni futuribili, altri a resoconti scientifici.

Poco dopo ci si imbatte in una lettera del Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che esorta ad affrontare la triplice crisi planetaria: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, ed il grave deterioramento di acqua, aria e terra. Lo Studio Other Spaces ( con un insieme di intellettuali anche italiani) risponde col progetto di completare e integrare la Carta delle Nazioni Unite, redatta ormai settantacinque anni fa, nel 1945, e incentrata solo sui diritti dell’uomo: ora vanno presi in considerazione anche i diritti di tutte le altre forme viventi sulla Terra, dagli animali alle piante, e addirittura anche  i  diritti delle forme minerali, dei sassi, dei deserti, delle rocce, e i diritti di tutte le parti costituenti il pianeta a partire dall’acqua e dall’aria.

Bisogna insomma affrontare con urgenza l’emergenza della crisi climatica provocata dall’uomo, interpretando correttamente le esigenze delle altre specie, dai funghi ai pipistrelli, e delle altre comunità, dalle foreste e dai mari ai soggetti gassosi dell’atmosfera.    

   Le tangibili e serie conseguenze della mutazione climatica stanno  richiamando gli architetti alle loro responsabilità in merito, spingendoli anche a ripensare alla loro tradizionale vocazione, e suggerendo loro di rivalutare  le consuete tecnologie locali, di proteggere l’ambiente naturale residuo, di operare congiuntamente all’ingegneria climatica.   

   Tornando all’esterno, colpisce il padiglione della Danimarca, con una parete costituita da coltivazioni a castello di piante in vaso; padiglione che presenta ambienti spogli con rigagnoli d’acqua, e salotti posti sopra grandi vasche di acqua piovana.

   Mentre il padiglione del Venezuela resta chiuso per i gravi eventi politici che hanno insanguinato quel paese, ed il padiglione dell’Australia resta chiuso per l’isolamento pressoché totale di quel continente che ben si è difeso dalla pandemia, il padiglione degli Stati Uniti (una costruzione classica in stile neopalladiano) resta chiuso perché è stata costruita all’esterno una struttura in legno, simile alla struttura portante di una grande casa, all’interno della quale è possibile salire per guardare Venezia e i Giardini della Biennale dall’alto.

Stessa scelta è stata fatta dal padiglione coreano (che al piano inferiore già proponeva l’ingresso senza scarpe in una stanza semibuia e completamente vuota), sul tetto terrazzato del quale, per la prima volta e soltanto in un ristretto orario pomeridiano, è possibile salire concedendosi alcuni minuti di astrazione dalla folla dei visitatori ed una pausa di celeste riflessione.

   Il padiglione giapponese è pieno di residui in legno di vecchie costruzioni, travi, infissi, tavolati, divisi per annata a partire dal 1954 fino agli anni Ottanta. Si tratta del progetto di ricostruzione (dagli architetti nipponici vengono usati addirittura i termini di riedificazione e di reincarnazione) di un’abitazione di Tokyo, Takamizawa House, attraverso una non facile collaborazione a distanza (causa restringimenti profilattici antipandemici) tra artigiani veneziani e un’impresa di costruzioni in Giappone. Quella ricostruzione (non fatta in Biennale dove si vede soltanto un laboratorio artigianale posto sotto al padiglione) è stata frutto di un amalgama tra vecchi e nuovi elementi, un’indicazione a salvare il vecchio armonizzandolo con quel poco di nuovo strettamente necessario.

   Il padiglione della Scandinavia colpisce sempre per i tre alberi secolari che crescono al suo interno, sfondando il soffitto per emergere nell’aria sopra all’edificio. Anche qui largo spazio alle piante in vaso e a degli essenziali ma al tempo stesso classici mobili in legno chiaro, con dei video che ne mostrano l’uso da parte di vari individui durante le recenti clausure domestiche, imposte per arginare la pandemia.

   Anche nel padiglione della Gran Bretagna, all’interno di una mostra intitolata “Il giardino delle delizie privatizzate” trova spazio l’apologia della vegetazione, la quale circonda e completa delle installazioni scultoree astratte, dai colori decisi ma intonati. Qui gli architetti britannici si riferiscono alla creazione di nuovi modelli di spazio pubblico privatizzato nelle loro città, riflettendo sulla polarizzazione tra pubblico e privato, per migliorare l’accesso e l’uso degli spazi pubblici. Il titolo del progetto è ripreso dal trittico di Hieronymus Bosch (il quale dipinge la Terra come spazio intermedio fra Paradiso e Inferno), in quanto si auspica, dando vento alle vele dell’immaginazione, che gli spazi pubblici vengano progettati come giardini delle delizie.

   Al padiglione Venezia campeggiano qua e là varie scritte di tenore filosofico: “Abbiamo davvero bisogno di continuare a costruire così ampiamente, grattacieli, capannoni e autostrade?” O dal tenore poetico: “ Vitruvio diceva che “l’architetto deve conoscere l’astronomia se vuole costruire tetti”; un tetto non è un semplice riparo dalle intemperie ma qualcosa che ti connette con le stelle…”. Ancora: “ Architetture degli spazi, delle conoscenze e delle relazioni. Consapevolezza condivisa per lo sviluppo delle comunità. Armonia della complessità”.

   Citazioni tratte da gruppi di studio psicoanalitico esperienziale sono presenti anche nel padiglione dell’Austria: “Se solo potessimo aprire le nostre menti, potremmo rendere il mondo un paradiso”. Laddove si mette in guardia, nel contempo, sullo strabordante potere dell’informatica,      in particolare sull’enorme potere dei costruttori di piattaforme telematiche.

Avviandoci alla conclusione della visita, il padiglione della Serbia, dove campeggia ancora scolpita in altorilievo su pietra d’Istria la scritta JUGOSLAVIA, nella luce affievolentesi dell’imbrunire, appare come un bianco fortilizio a difesa di un deserto, ricordando vagamente i quadri metafisici intitolati “L’isola dei morti” dello svizzero Arnold Bocklin.

Grazie alla gentilezza delle presidianti italiane del padiglione di Israele, fuori tempo massimo, già scoccata da pochi minuti l’ora serale della chiusura, veniamo ammessi all’interno dei saloni ebraici, dove si staglia un’installazione di piante scheletrite contenute in un grandissimo parallelepipedo dall’atmosfera interna poco rassicurante, di colore violaceo, probabilmente tossica: un presagio esemplare di ciò a cui il mondo rischia di andare incontro. Al piano superiore uno spettacolo perturbante ci attende: come dai cassettoni metallici di una camera mortuaria, in un silenzio di tomba, con ritmo lento ma inesorabile fuoriescono le spoglie di veri animali impagliati e la ricostruzione in resina degli scheletri di una donna con un piccolo cane; resti ritrovati in un sito archeologico palestinese di migliaia d’anni fa.

Se non ci mettiamo subito tutti seriamente d’impegno, se non sappiamo rinunciare a certi privilegi e comodità, ben presto e con spaventosa rapidità (rispetto ai circa duecentomila anni durante i quali si è sviluppata la civiltà umana dell’homo sapiens),  le forme di vita sulla Terra rischieranno di entrare in estrema sofferenza per poi estinguersi.

fotografie di Edoardo Pilutti edoardo.pilutti@gmail.com

17° Esposizione Internazionale Biennale di Architettura

Venezia, Giardini di Castello

dal martedì alla domenica, ore 10 – 18                

fino al 21 novembre 2021

Architettura

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