Vincent, genio e follia

Centro Culturale San Gaetano. Padova 2021

di Edoardo Pilutti

A Padova, la mostra VAN GOGH. I COLORI DELLA VITA, a cura di Marco Goldin, raccoglie ben 82 opere dell’eccelso artista olandese, dipinti e disegni provenienti prevalentemente dal Kröller-Müller Museum di Otterlo e dal Van Gogh Museum di Amsterdam. A esse è affiancata una quindicina di capolavori di altri pittori, fra cui Millet, Gauguin, Seurat, Signac, Hiroshige, a lui contemporanei, o da lui influenzati, come Francis Bacon.

Questa grande mostra, che è rimasta chiusa per cinque mesi causa pandemia ed è stata appena riaperta e prorogata fino a domenica 6 giugno, fornisce l’occasione per una analisi dei rapporti fra creatività artistica e sofferenza psichica.

In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 20 dicembre 2013 dal titolo “Se l’artista è tentato dall’albero della follia”, il critico, artista e già psichiatra Gillo Dorfles (Trieste, Impero Austroungarico, 1910; Milano, 2018) sviluppava delle considerazioni in tal senso.

Riferendosi al saggio dello statunitense docente universitario di psicologia clinica Louis A. Sass, “Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni”, Dorfles sostiene che disturbi mentali seri come la dissociazione (sintomo che si presenta in molte sindromi nevrotiche e soprattutto psicotiche, fra cui spicca la schizofrenia) sono presenti in gran parte degli esseri umani. Addirittura, dimostra Dorfles, nei vari settori dell’ambito societario ed in particolare in quello politico, una parziale se non totale forma dissociativa è uno degli aspetti più significativi che porta al potere e al successo.

Conclude coraggiosamente e giustamente Dorfles: “La nostra, dunque, può essere considerata un’età dissociata, non soltanto nei casi patologici, ma in un certo senso come testimonianza della “psicosi” di cui spesso la nostra società è affetta.

Ma da qui in poi il mio punto di vista si differenzia da quello dello psichiatra, critico e artista di origine triestina, vissuto oltre cent’anni, sempre perspicace e acuto.

L’arte infatti, alla luce della psicoanalisi del Novecento, è una forma di sublimazione, come lo è d’altra parte ogni attività lavorativa; è un modo per convogliare ad una forma di espressione accettabile, e addirittura utile anche per gli altri, tensioni e pulsioni che, se lasciate completamente libere di essere agite, comporterebbero danni se non addirittura la catastrofe collettiva. Ma se tali pulsioni e tensioni venissero ciecamente represse, porterebbero il soggetto ad uno stato di conflittualità nevrotica, o ad una destrutturazione psicotica, o ad una grave malattia psicosomatica.

In Van Gogh l’arte, a continuo contatto con l’inconscio di cui ha permesso l’affiorare esteticamente sublime di contenuti rimossi, non è stata sufficiente a preservarlo dagli effetti mortali della disperazione e della dissociazione.

Depressione e dissociazione che si sono venute a costruire in lui in seguito alla sua particolare biografia e probabilmente, come sta scoprendo la psicoanalisi contemporanea, anche in seguito alla storia familiare e individuale degli antenati delle generazioni precedenti.

La vita, le passioni

Vincent Van Gogh fu il primo di sei figli di un pastore protestante di una piccola cittadina nel sud dell’Olanda, vicino al confine belga, dove nacque il 30 marzo 1853.

A dodici anni fu messo in un collegio ma a sedici tornò a casa poco socievole e ipersensibile come prima. Testa d’uovo, occhi piccoli, capelli rossi, spalle cascanti, emotivo, portato ad umori melanconici, sembrava un buono a nulla; invece si mise a lavorare sodo per tre anni alla sede dell’Aja delle gallerie Goupil, dove un suo zio aveva mansioni di dirigente.

Nel 1873, a vent’anni, fu trasferito alla sede di Londra.

A 22 anni, quando gli si stava aprendo una prestigiosa carriera di mercante d’arte, fu come se la vita gli andasse in frantumi per l’infelice esito di una storia d’amore: aveva incominciato a venerare in silenzio la figlia della sua padrona di casa, e quando lei lo respinse, lui prese il rifiuto troppo seriamente, da ipersensibile e permaloso com’era.

Non fu più così attento ed alacre nel lavoro come lo era stato prima e perciò fu trasferito a Parigi, poi ancora a Londra, e ancora a Parigi nel 1874 – 75.

In questo periodo sembra abbia concepito una concreta forma di repulsione e di disgusto per le opere d’arte classiche e tradizionali che era costretto a maneggiare; si diede ad impiegare tutto il tempo libero nello studio della religione che fece sgorgare in lui una fonte d’amore e carità che poté e volle rivolgere verso l’umanità sfortunata. Trascurò tanto il lavoro che fu licenziato.

Nei seguenti tre anni fu preda di un conflitto fra il bisogno di guadagnarsi da vivere e quello (divenuto per lui altrettanto importante) di prepararsi a diventare un ministro del cristianesimo. Insegnò in una scuola in Inghilterra, visitando nel frattempo i sobborghi più miseri di Londra. Lavorò come commesso in un negozio di libri e poi per un anno fu sostenuto economicamente dalla famiglia, mentre provava a studiare teologia all’università di Amsterdam, col proposito di un uomo di chiesa come suo padre.

Non ci riuscì. Volle quindi tentare un’attività di missionario fra la gente, divulgando e mettendo in pratica il messaggio evangelico, mentre i suoi familiari, uno dopo l’altro smettevano di interessarsi a lui.

A Wasmes, nel Borinage, dove i minatori e le loro famiglie erano sfruttati fino all’estremo in una situazione di miseria e disperazione, in una terra sconquassata ed annerita dagli eccessi dell’industrialismo, Vincent si dedicò alla carità. Constatando che prediche e preghiere non servivano a molto e che l’unico modo per conquistare la stima dei minatori era vivere come loro, dividendo con loro i suoi averi, cedette il pane che gli sarebbe servito per mantenersi in forza, e persino il letto.

Praticando questa forma di comunismo cristiano divenne così simile ai diseredati e così diverso da un normale predicatore, che la Chiesa ufficiale, solidale allora con i padroni, lo espulse criticando il suo eccessivo zelo, pur lodando il suo spirito di sacrificio.

Ma dopo un anno ritornò nel Borinage per vivere come uno di quegli oppressi, di quegli emarginati, considerandosi quasi un barbone.

Quando era studente di teologia si era sorpreso inspiegabilmente a disegnare, e anche a Londra delle volte aveva fatto degli schizzi per divertire amici e parenti; finché era missionario aveva fatto dei disegni oltre a dei giocattoli per i figli dei minatori. Ora, dopo il fallimento dell’iniziativa missionaria, si rendeva necessaria un’altra maniera per esprimersi.

Presto fu febbrilmente desideroso di servire l’umanità attraverso l’arte e si mise a far disegni dei minatori e della loro vita.

Suo fratello Theo, più giovane di lui di quattro anni, fu l’unico della famiglia a capirlo e ad avere simpatia per lui, e da quando s’impiegò nella ditta Goupil incominciò a mandargli parte dei suoi modesti guadagni per permettergli di studiare, dipingere, e cercarsi anche qualche lavoro saltuario. Per cinque anni, dal 1875, più o meno disoccupato, Vincent aveva vagabondato qua e là incominciando a riflettere sulle stranezze dell’umanità e dell’arte: “Se uno ama profondamente un artista può intravedere qualcosa di Dio, una prospettiva di liberazione, la fede. Forse un uomo con queste certezze, divenuto artista e pieno d’amore, potrebbe essere lui stesso uno strumento del disegno divino. Questo ho imparato ai corsi gratuiti dell’università della sofferenza.”

Nel 1880, in una lettera a Theo, dopo un viaggio spossante durante il quale dormì lungo la strada, su covoni di fieno o nei vagoni ferroviari, scrisse: “Fu proprio in quel profondo tormento che sentii rinascere le mie energie, e mi dissi: mi risolleverò ad ogni costo, riprenderò la matita che avevo dimenticato durante la grande disperazione. Da questo momento il mondo per me sarà trasformato.”

Dai 27 ai 30 anni studiò disegno e lesse libri di carattere sociale mentre era a Bruxelles, Etten, Amsterdam e l’Aja. A Etten e Amsterdam fu ancora vittima dell’amore, un destino che tornava a ripetersi, e quando fu rifiutato sentì ancora che la sua vita era stata sconvolta.

Aveva tentato di conformarsi all’arte ufficiale, ma il cugino pittore che gli aveva insegnato la tecnica ad olio non ne poté più della sua cocciutaggine e malinconia.

Fu allora che ospitò nel suo povero alloggio all’Aja una donna ammalata ed incinta, che aveva fatto la prostituta e che portò con sé uno dei suoi cinque figli. Vincent, scosso psichicamente dalle precedenti esperienze e resosi di salute precaria, continuava a mettere in pratica le teorie dell’amore altruista e del sacrificio: si prese cura di Sien, la donna incinta, pagò per lei le parcelle delle visite mediche, divise con lei cibo e fame e si propose di sposarla. Per più di un anno riversò su di lei tutto l’amore che era stato respinto dalle altre donne: ai suoi parenti che lo consigliavano di lasciarla perdere, ricordò l’insegnamento cristiano di donarsi e aiutare i bisognosi.

Ma fu Sien a lasciarlo. Frustrato dall’incomprensione e dall’abbandono della donna, si dette fanaticamente e con amore alla pittura, immergendosi completamente nel ritrarre la vita contadina della gente, a Drenthe nel 1883 ed a Neumen nel 1884 -85, registrando con inconfondibile forza e con estremo candore le loro varie attività:  “La figura di un lavoratore, dei solchi in un campo arato, un po’di sabbia, il mare, il cielo, sono soggetti seri, così difficili ma così belli che vale la pena di dedicare la vita a cercare di esprimere la poesia nascosta in essi”.

A Neumen patì ancora le rovinose pene di un amore non corrisposto: perciò si rinchiuse sempre più in se stesso, mentre disturbi mentali lo affliggevano pesantemente negli ultimi cinque anni di vita, prima del suicidio.

Era successo che una donna meno giovane di lui aveva risvegliato prima la sua simpatia e poi il suo amore struggente; ma per sfuggire al fuoco della passione di Vincent, la donna aveva provato persino ad uccidersi.

Fu l’ultimo tentativo che Vincent fece per trovare la felicità in un grande amore. Paragonandosi agli esempi di felicità coniugale dei suoi parenti si sentiva sempre più diverso. In quell’anno, 1885, quando morì suo padre, disse: “E’ duro morire ma è peggio vivere.”

Nell’inverno del 1885 – 86 a Anversa scoprì il colore e la gaia stravaganza di Rubens, oltre all’arte giapponese: ma una malattia, l’essere stato sul punto di morire per denutrizione e la breve frequentazione di una banale accademia d’arte, accentuarono la sua solitudine e tristezza.

Nel 1886 si trasferì a Parigi subito dopo aver scritto al fratello tra l’altro: “Sebbene sia primavera quante migliaia di persone sono perdute nella desolazione…quando qualcuno isolato è incompreso e ha perso ogni possibilità di provare delle gioie concrete, resta solo la fede…Sembro come se fossi stato in prigione per dieci anni. C’è qualcosa di scabroso e imbarazzante in me…Ho perso quasi dieci denti, e i quarant’anni non mi promettono niente di buono.”

A Parigi abitò con Theo e fu esposto a due influenze fondamentali per il suo stile pittorico: quella delle stampe giapponesi e quella degli impressionisti. Ben presto sentì però che la sua sensibilità pittorica era molto più affine a quella di Cézanne, Gauguin e Seurat. Senti anche di essere di peso al fratello; le tele che gli dava per sdebitarsi dell’ospitalità, non solo non venivano vendute: addirittura neppure potevano essere esposte alle gallerie Goupil. Per di più a casa, nel piccolo appartamento, i due fratelli cominciavano inevitabilmente a darsi sui nervi l’un l’altro.

Vincent si sentiva depresso anche dal tipo di vita che c’era a Parigi: tutto gli sembrava noioso, superficiale e perfino vizioso, come la vita di Toulose-Lautrec e di tanti altri artisti minori, che rasentava la decadenza morale. Lui invece bramava la semplice stimolazione della natura, del colore e della luce dati dal sole. Sentiva il bisogno di fuggire da Parigi.

Un giorno, nel febbraio 1888, con la sua caratteristica gentilezza, Vincent pulì l’appartamento del fratello, lo ornò con fiori e con dei suoi dipinti, e sparì.

“Devo immergermi nella terra, devo cominciare tutto da capo”, aveva detto a Theo, “devo andare dove c’è il vento che desidero tanto sentire sulla mia pelle, e il caldo intenso odore dei campi arati.”

Ad Arles, sempre aiutato economicamente dal fratello e sempre senza un soldo, concepì l’idea di una cooperativa di pittori, con a capo i più noti degli impressionisti, che permettesse a tutti i pittori di campare e lavorare senza preoccupazioni per il loro sostentamento. Questo proposito, impraticabile in una società che proprio allora iniziava a strutturarsi come capitalistica, lo fece arrovellare spesso in quegli ultimi anni in cui affrontò nuovi periodi di malattia e denutrizione, pur riuscendo a produrre una quantità enorme di capolavori animati da orge di colori. Di questo periodo sono una serie di ritratti, tra cui il suo in cui appare duro, intransigente e quasi distorto; una serie di paesaggi e di interni intensi e vividi, dove le campiture di colore sono piane e lisce, non più a tratteggi, e la prospettiva e il disegno semplificati.

La sua ricerca procedeva parallelamente a quella del gruppo di Pont-Aven, ma era intuitiva, questione di prova ed errore, di studio delle opere degli altri artisti, piuttosto che guidata da una teorizzazione per la quale non ebbe mai tempo né inclinazione.

Quando cercò di concretizzare la sua idea della cooperativa affittando un appartamento ed invitandovi Gauguin che vi giunse in ottobre, le discussioni che portavano avanti tutto il giorno assieme alla pittura, si trasformarono in liti, prese in giro, scambio di ingiurie. Van Gogh difendeva tenacemente Delacroix e Rembrant nei confronti di Gauguin, il quale arrivò a pasticciare il quadro che Vincent stava abbozzando, per cui una sera quest’ultimo lanciò addosso a Gauguin un bicchiere di vino. I due comunque rincasarono assieme. La mattina dopo Vincent era pentito ed amareggiato; chiese perdono, ma alla sera rincorse Gauguin per la strada buia con un rasoio aperto in mano: per fermarlo bastò solo una parola di Gauguin, il quale però prese una stanza in albergo.

Ma Vincent, frustrato nell’atto di violenza che voleva compiere contro l’amico, decise prima di ammazzarsi e poi si accontentò invece di tagliarsi di netto uno dei buffi orecchi e di portarlo, come aveva promesso scherzosamente una volta, ad una prostituta di una vicina casa di tolleranza. Tornato a casa, sanguinante con la testa avvolta in un asciugamano, cadde esausto fino al mattino seguente, quando fu trovato in quello stato da Gauguin e da altra gente che lo credeva addirittura assassinato.

 Dopo alcuni giorni tornò alla casa degli artisti, rimesso in sesto da un medico che gli aveva insegnato a tenersi calmo quando si sentiva minacciato da una sovraeccitazione. Aveva scoperto così che era proprio l’eccessivo eccitamento, il tormento dei sentimenti, l’appassionante febbre di esprimersi che lo rendevano capace di creare le sue opere. A Theo scrisse: “E’ sorprendente come ci si possa rovinare il cervello e poi guarire” e che ora, dopo che essere il fratello sempre rimasto povero per mandargli degli aiuti, lui gli avrebbe restituito il denaro datogli o avrebbe reso l’anima.

Una sera in un ristorante accusò un cameriere di avvelenargli la minestra e scagliò il piatto per terra: fu riportato in ospedale. Quando uscì la gente era contro di lui: non poteva più nemmeno dipingere tranquillamente e infine, pungolato dalle ingiurie e dalle beffe di certi bambini che gli chiedevano l’altro orecchio, fece una scenata indimenticabile sulla piazza. Dalla prigione dove fu portato fu trasferito in ospedale e più tardi acconsentì a farsi internare in una casa di ricovero anche per non dare ulteriori preoccupazioni a Theo.  

Nella casa di cura gli fu permesso, dopo alcune settimane, di dipingere.

Nonostante alcuni violenti scontri, stabilì una certa amicizia con alcuni degli altri degenti; avvertì che quel vago timore, quella paura delle cose che tanto lo avevano disturbato, potevano essere anche una delle cause dei problemi che aveva arrecato al fratello.

Sentiva però di non essere diverso dai tanti altri artisti che come lui erano finiti in manicomio. Diventò anche meno aspro e prevenuto nei confronti degli altri pittori, facendo pace per lettera anche con Gauguin. In confronto a quello di certi suoi predecessori, giudicò il suo lavoro di poca importanza e incominciò a parlare della basilarità dei toni grigi conformemente alla nota di tristezza che si insinuava nella sua pittura.

Gli fu permesso di uscire per dipingere nei pressi della casa di cura. Aveva sempre pensato che la natura pulsava della stessa vitalità che animava anche lui e perciò ora dipingeva dei cipressi di colore scuro, mossi da un agitato tormento di fiamma come era tormentato e consumato da struggenti passioni lui stesso. I dipinti di Saint-Rémy hanno perso la serenità e l’equilibrio formale di prima, sono agitati da un nervoso movimento, da violenza.

Durante l’anno a Saint-Remy le crisi psicotiche gli si presentarono a intervalli, e i medici gli avrebbero proibito di dipingere se egli non avesse minacciato di suicidarsi in seguito a ciò.

Poi, inaspettatamente, nel febbraio del 1890, gli giunsero delle buone notizie troppo belle per non recar danno ad una persona di equilibrio psichico debole: una lettera di Theo lo avvisava che un suo quadro era stato venduto, e che con i quattrocento franchi ricavati poteva trasferirsi ad Auvers sur Oise, a meno di trenta chilometri da Parigi, nella clinica del dottor Gachet, che anni prima era stato il primo mecenate di Cézanne. In seguito Theo gli chiese di far da padrino al figlioletto appena nato. Infine lo informò che del suo quadro si parlava in una rivista d’arte, a lungo e in modo molto lusinghiero.

Dapprima contento, Vincent pregò poi che non si parlasse tanto dei suoi quadri: “Fare quadri mi distrae, ma sentirne parlare mi dà più pena di quanto si possa immaginare.”

Quella approvazione era giunta troppo tardi per cancellare il suo risentimento. Le sue crisi continuavano a ricorrere ciclicamente: le ultime due avevano assunto la forma di mania religiosa, per l’influsso, disse lui, delle monache che servivano come infermiere nel manicomio.

In maggio partì per Parigi dove c’era il fratello, il quale gli aveva chiesto in precedenza di far da padrino al figlioletto per il battesimo, ad aspettarlo alla Gare de Lyon. Fu contento di rivedere i vecchi amici e di conoscere la famiglia di Theo. Vincent aveva sempre pensato ai bambini come alla più grande fortuna, e ricordava con nostalgia la sua infanzia.    Aveva, a detta di tutti, un ottimo aspetto e si comportava meticolosamente. Dopo tre giorni tornò col fratello ad Auvers dove incontrò il medico Gachet: si sentì ben accolto e compreso in quell’ambiente.

Ma si sentiva anche stanco, depresso. Insistentemente gli si presentava l’idea di essere sul punto di crollare.

Dopo alcune settimane, prevenendo l’approssimarsi della crisi periodica che oramai aveva imparato a prevedere, prese in prestito una pistola, andò in un campo di grano e si sparò al petto. Non morì subito, restò in vita ancora per due giorni e quando arrivò Theo gli disse: “Ho fallito ancora una volta.”

Spirò tra le sue braccia il 29 luglio 1890. L’anno seguente in primavera, morì anche Theo, e il suo corpo fu tumulato vicino a quello del fratello ad Auvers.     

Rassegnato, introverso nella vita, espressionista in arte, in Van Gogh gli psicologi clinici possono trovare la conferma di alcune teorie sull’arte e sulla rappresentazione grafica usate come valvola di scarico per i disordini psichici.

Fra alcuni critici si può riscontrare un’apparente discordanza sul significato ultimo della sua pittura. Per Cheney fu la rivelazione di una personale identificazione con le forze più profonde e misteriose della natura. Per Argan la rappresentazione di una realtà come limite di cui si soffre; una realtà che si può subire passivamente, oppure si può fare propria, rifarla con la materia e gli atti del mestiere di pittore, e contro la quale bisogna “lottare per impedire che la sua esistenza sopraffaccia la nostra.”

Questi due diversi aspetti appartengono entrambi alla poetica di Van Gogh, conformemente alla strutturazione psicotica della sua personalità gravata dalle vicende che hanno sconvolto la sua vita: da un lato l’amore sconfinato per la natura, la terra, il mare, il vento, il sentimento mistico dell’unione con essa (cosa che troppa gente non era e non è in grado di capire); e l’odio per l’ordine sociale che lo aveva respinto, per quel mondo borghese nascente incapace d’interrogarsi sul significato dell’esistenza mentre emarginava e sfruttava, allora come oggi, i più deboli e sfortunati, e che infine lo uccise.

Il caso Van Gogh

Psicosi maniaco-depressiva. Depressione endogena con episodi schizoaffettivi. Psicosi cicloide. Con una di queste diagnosi uno psichiatra tradizionale risolverebbe il problema della classificazione nosografica della vita del grande artista, senza però aver spiegato né capito alcunché.

 Alla freddezza della diagnosi sfugge il significato del profondo dramma umano di ciascun soggetto sofferente, di ciascuna singola vita che va a collocarsi nel percorso storico dell’umanità.

La psicosi, quale forma di regressione narcisistica, si origina in seguito ad una serie di traumi o microtraumi che colpiscono un individuo caratterizzato da una struttura di personalità debole e precaria; struttura costituitasi durante un’infanzia trascorsa sotto il segno di relazioni patogene con l’oggetto d’amore parentale. Anche questa estrema sintesi ricavata da alcune teorie psicoanalitiche sulla cosiddetta malattia mentale spiega ben poco.

Si può ancora aggiungere che la psicosi è una frantumazione dell’identità personale, per conservare la quale l’io ha bisogno degli altri: l’immagine di sé che uno ha dipende infatti dall’immagine che gli altri hanno di lui e dall’immagine che egli pensa che gli altri abbiano di lui. Quando i rapporti di un soggetto con gli altri diventano conflittuali, quando non viene accettato, quando viene bersagliato da comunicazioni sconfermanti o contraddittorie o mistificanti; e quando tutto ciò accade ad un soggetto con una struttura di personalità predisposta dai modelli di relazione familiari (fino a risalire agli antenati delle precedenti generazioni) allora viene aperta la strada della psicosi.

Tutto questo si è verificato nella vita di V. Van Gogh: una serie di pesanti delusioni, di impetuosi rifiuti, di emarginazioni che arrivate oltre un certo punto danno alla sofferenza del soggetto un corso irreversibile.

Non è facile oggi andare a verificare se nella prima infanzia dell’artista si sono presentati quei modelli relazionali madre–figlio e genitori–figlio di piena accettazione seguita da accettazione rigidamente condizionata alla prestazione del bambino (ma la professione paterna e il conseguente clima familiare lasciano supporre che sia stato proprio così), che sono stati messi in luce dalla psicoanalisi nell’infanzia dei depressi.

Quello che invece è evidente è l’incapacità e l’impossibilità di stabilire una relazione d’amore con una donna; incapacità che, manifestandosi episodicamente dai ventidue anni in poi, ha finito per diventare una penosa costante della vita di Vincent; ed è noto psicoanaliticamente come la perdita dell’oggetto d’amore sia alla base della depressione anche nella sua forma psicotica.

 Ma, oltre al rifiuto avuto da parte di vari soggetti femminili, Van Gogh ha avuto anche quello altrettanto distruttivo della società, degli altri nel loro complesso, dell’Altro. Lui aveva saggiamente intravisto nell’arte e nella pittura un mezzo per esternare il suo amore e la sua sensibilità che erano stati frustrati nei fallimentari tentativi di stabilire delle relazioni appaganti; un mezzo per sublimare le pulsioni erotiche. Ma quando si profilò sempre più chiaramente l’incomprensione della società (in particolare dei galleristi e dei mercanti d’arte) per la sua straordinaria e originale pittura, si mise in moto quella serie di meccanismi che lo portò all’autodistruzione.

L’aiuto e l’affetto costante del fratello furono insufficienti in confronto allo stillicidio di indifferenza e disprezzo che piovve su di lui per tutta la vita; a ben poco servì anche il tardivo riconoscimento per il suo unico quadro venduto: fu come una goccia in mezzo al mare, ad un mare ostile che lo aveva ormai travolto.

La sua pittura è una testimonianza diretta del travaglio della sua esistenza; è permeata da sentimenti di amore e odio non in conflitto tra loro, bensì confusi in una ambivalenza che si esprime nella tormentata vitalità dei segni come pure nella violenta armonia dei colori.

Van Gogh era vittima di profonde angosce e di conflitti intrapsichici, dovuti a difficili relazioni con i genitori e l’ambiente dell’infanzia, che gli impedivano di trovare un equilibrio riguardo al suo normale ma impotente desiderio di dare amore all’altro: eppure in pittura, nel momento in cui il conflitto veniva espresso, cessava di essere tale. Solo quando ormai il conflitto si è ineluttabilmente endogenizzato, nel periodo del ricovero a Saint-Rémy, i dipinti sono pervasi da agitazione, da ansia, da violenza.

L’artista non è più in grado, nemmeno sulla tela, di cercare quell’appagamento o quella serenità che gli sono sempre mancati.                                         

Proprio questo fa grandiosa l’importanza della pittura di Van Gogh. Un’arte che, come affermato anche da Flavio Caroli, ha permesso il riconoscimento dell’irrompere della follia nella storia dell’arte, unitamente a soluzioni pittoriche nuove e geniali.

E, tornando a Gillo Dorfles, la pittura e la vita di Vincent hanno dimostrato l’irrompere e l’insediarsi della follia in un territorio circoscritto della società, il mondo dell’arte appunto, mondo al quale la maggioranza deviante può guardare sentendosi assolta.

                                                                                                                                                                                         Testo di Edoardo Pilutti edoardo.pilutti@gmail.com

VAN GOGH. I colori della vita

a cura di Marco Goldin – Linea d’ombra

Centro San Gaetano

via Altinate, 71       Padova

prorogata al 6 giugno 2021

da lunedì a mercoledì, e domenica: ore 10 – 13 / 14 – 20

da giovedì a sabato: ore 10 – 13 / 14 – 21

(ultimo ingresso 70 minuti prima della chiusura)

http://www.biglietto.lineadombra.it.

Tel. 0422 429999 Prenotazione vivamente consigliata per i giorni infrasettimanali e obbligatoria per il sabato, la domenica e i giorni festivi.

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2 Comments Lascia un commento

  1. Uno dei miei pittori preferiti. Ho avuto il privilegio di vedere il suo museo ad Amsterdam, fantastico. Fantastica anche questa mostra

  2. Grazie per questa mostra. Non ci si stanca mai di guardare opere cosi coinvolgenti. Mi commuovo al pensiero delle sue sofferenze, ha avuto una vita travagliata e infelice. Sarebbe stupito del grande successo che ha oggi e del grande valore dei suoi quadri…è stato un genio.

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