Biennale Architettura 2021
How will we live together?
Arsenale, Venezia
Parte I
di Chiara Trivelli
La 17a. Mostra Internazionale di Architettura è stata curata dall’architetto, docente e ricercatore Hashim Sarkis (Libano, 1964), preside della School of Architecture and Planning del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston.

Allievo di Rafael Moneo (Spagna, 1937), maestro nella progettazione di spazi per la vita comune, a cui è stato quest’anno assegnato il Leone d’Oro alla carriera, Sarkis dedica la Mostra al tema della convivenza e delle sue potenziali forme e modalità future, contrapponendo al radicale senso di solitudine e isolamento che permeano i nostri tempi, la vita condivisa con gli altri, il design e l’architettura di spazi comuni, quelli che – secondo Moneo – “ti danno la sensazione di essere casa tua” anche se sei fuori, nello spazio pubblico.
E se il titolo della Mostra è una domanda diretta “Come vivremo insieme?” ogni progetto esposto va inteso come il tentativo di dare una risposta a questa domanda.
Le risposte date dai 112 partecipanti provenienti da 46 paesi presenti in Mostra sono state organizzate da Sarkis in un percorso espositivo suddiviso in 5 sezioni, ognuna delle quali colloca il problema su una differente scala: come uno sguardo che si allarga, la questione viene prima affrontata al livello del soggetto singolo in rapporto ad altri esseri (Among Diverse Beings), quindi declinata sul piano della coabitazione (As New Households), comunitario (As Emerging Communities), internazionale (Across Borders) e infine planetario (As One Planet).
Le prime tre sezioni sono all’Arsenale, mentre le ultime due sono al Padiglione Centrale ai Giardini.
Quanto segue è una carrellata attraverso alcuni progetti esposti nella prima sezione della Mostra, quella dedicata al rapporto dell’uomo con l’altro da sé – siano essi animali, esseri soprannaturali, i nuovi strumenti di comunicazione e/o la tecnologia – e ai “cambiamenti della percezione e concezione del corpo umano”[1], partendo dal presupposto che non solo “i nostri corpi sono ecologie”[2] ma “appartengono anche a diversi ecosistemi in cui non siamo soli”[3].
Compito dell’architettura è qui allora operare una mediazione, ricorrendo all’empatia e a modalità simbiotiche, fra corpo e spazio, farsi “protesi”[4].
PARTE I
AMONG DIVERSE BEINGS
L’installazione che apre il percorso espositivo alle Corderie dell’Arsenale si intitola Alasiri: Doors for Concealment or Revelation (2020)ed è stata realizzata da Peju Alatise (Nigeria, 1975), artista interdisciplinare, architetto e autrice di due romanzi.

Costituita da 40 porte d’acciaio e 13 sculture a grandezza naturale, l’installazione fonda l’associazione fra un elemento architettonico, la porta, e la figura umana su una metafora, “una persona è come una porta”[5], e un fenomeno, “la porta come portale soprannaturale”[6], che l’autrice fa risalire alla cultura e filosofia Yoruba, popolazione che ha le sue origini nell’Africa Occidentale eda cui ella stessa proviene.
Le figure dell’installazione appartengono dunque all’immaginario della cosmologia e mitologia narrate nelle storie che Alisani, cresciuta a contatto col folklore Yoruba, ascoltava da bambina e che si presuppone dovessero trasmettere un messaggio morale. Secondo Alisani, infatti, l’architettura da sola non può rispondere alla questione “how will we live together?”, che è piuttosto una questione di ordine morale, che chiama in causa il problema della comprensione reciproca e del rapporto con l’altro.
L’Alasiri a cui si fa riferimento nel titolo, in lingua Yoruba significa “custode di segreti”. Per Alatise è colui che permette di fare esperienza dell’other side[7]: ciò che è dall’altra parte può essere occultato o rivelato, le porte articolano il rapporto interno/esterno e viceversa, fare esperienza dell’altro significa allora fare esperienza di una porta aperta o chiusa, “esplorare la reciproca comprensione e incomprensione”[8], accedere a un segreto diventandone parte.
Professore e “architetto in un corpo d’artista”[9], Allan Wexler (Usa, 1949) lavora da 40 anni sul “come viviamo insieme”, indagando la relazione fra spazio, abitudini e attività ordinarie, come “i luoghi in cui abitiamo si dissolvano in ricordi, provochino emozioni e creino conversazioni inconsce”[10].

L’installazione presentata, Social Contracts: Choreographing Interactions (2020), include 11 suoi lavori, tra cui: Plein Air Studio, uno studio di progettazione portatile ispirato alla frase di Ruskin “sto nel mio studio come in un vestito”; Coffee Seeks its Own Level, quattro tazze da caffè connesse tra loro con un tubicino in modo tale che possono essere bevute solo in gruppo e simultaneamente; Table for Typical House, un tavolo da pranzo diviso in quattro sezioni isolate e separate da una parete; One Table Worn by Four People, un tavolo componibile di quattro sezioni indossabili; Four Shirts Sewn into a Tablecloth, una tovaglia ai cui quattro lati sono cucite altrettante camicie.
Simili agli oggetti relazionali di Lygia Clark, i lavori di Wexler rendono visibile uno spazio inteso come ambiente che plasma i nostri comportamenti ed è a sua volta trasformato dal nostro uso, sono modi di coreografare le nostre interazioni, di mostrare al contempo il nostro isolamento e la nostra intima connessione nello spazio condiviso, alcuni mettendo in scena situazioni inaspettate e fragili contratti sociali.

Il pluripremiato Studio Ossidiana, con sede a Rotterdam e diretto dagli italiani Alessandra Covini (1988) e Giovanni Belotti (1987), con l’installazione Variations on a Bird Cage (2019-2021) propone una piattaforma per essere umani e uccelli, che invita a ripensare l’archetipo della gabbia da forma di isolamento a oggetto di mediazione, reciproca trasformazione e scambio fra esseri umani e altri animali, dove la torre colombaia o i trespoli per uccelli diventano moduli del paesaggio.

Heavy Duty Love (2021) è un “macchinario sportivo domestico che comprime il corpo in mezzo a strati di materiali morbidi”[11], “un sostegno per la salute mentale”[12] progettato per simulare l’abbraccio genitoriale e compensare la mancanza di contatto umano per coloro che, in un futuro che deve ancora compiersi, saranno nati in laboratorio e cresciuti in uteri artificiali, realizzato dall’artista di fantascienza, regista, inventrice e “architetto del corpo”[13] Lucy McRae (Australia, 1979).
“Come vivremo insieme se saremo costretti a potenziarci per rimanere competitivi?”[14]

Con il Catalog for Post-Human (2020), il duo inglese Parsons & Charlesworth, che opera negli Stati Uniti, propone una “pratica scultorea inventiva” volta alla “creazione di oggetti che ci permettono di esaminare i nostri se’ futuri”[15]: un’installazione satirica che si presenta come lo stand fieristico di un’organizzazione fittizia che vende una gamma di prodotti per lavoratori di un futuro prossimo. Fra questi: un giubbotto gonfiabile che contiene una sacca da flebo con sostanze nutritive e si indossa per essere sempre produttivi; un kit per assumere micro-dosi di LSD o altri allucinogeni al mattino, non per sballarsi ma per affinare le nostre capacità cognitive; uno “stress-watch”[16] per monitorare i livelli di cortisolo attraverso il campionamento salivare, che incoraggia a controllare quanto dobbiamo essere stressati per lavorare meglio.

Beehive Architecture (2021), che letteralmente significa “architettura alveare”, è il progetto sperimentale a cui Tomáš Libertíny (Slovacchia, 1979) lavora dal 2006 nei Paesi Bassi e che indaga una modalità di progettazione in collaborazione con le api. Per Libertíny, “non si tratta di imitare la natura ma di assorbire il potenziale che già è in natura”[17]. Le sculture in cera d’api presentate in mostra sono state realizzate inserendo scheletri preformati – il busto di Nefertiti ma anche particolari strutture a padiglione – all’interno di alveari popolati da 60000 api. Hanno richiesto un tempo di lavorazione che va da alcune settimane fino a un paio d’anni. Le api sono qui “autrici di prototipi”[18], che vengono scansionati, adattati a contesti reali e poi fabbricati in diverse scale e materiali. Poiché le api operano in stretta relazione con l’ambiente, reagiscono ai cambiamenti di temperatura, si adattano a spazi ristretti, tengono conto della forza di gravità e distribuiscono i materiali in modo economico, il loro modo di procedere ha una valenza sia funzionale che estetica. Le api possono essere prese a modello come cloud engineer ovvero nella progettazione di strutture leggere, le cosiddette “pelli architettoniche”[19].
Grove (2021), “boschetto”, è un’installazione immersiva progettata dal gruppo di ricerca interdisciplinare Living Architecture Systems Group (Canada, 2016), che lavora a cavallo fra architettura, elettronica, ingegneria informatica e psicologia ed è diretto da Philip Beesley (Canada, 1956) della University of Waterloo School of Architecture, il cui studio è specializzato nella progettazione architettonica di edifici pubblici, arte pubblica e installazioni sperimentali. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con lo studio 4DSOUND di Amsterdam, che si occupa di ambienti e paesaggi sonori, e i registi londinesi Warren du Preez e Nick Thornton Jones.

Al posto di mura che escludono, Grove propone un’idea di luogo di ritrovo aperto e inclusivo, un riparo sicuro benché fragile e precario, una sorta di “santuario”[20], in cui le forme e geometrie che occupano lo spazio si muovono al confine fra architettura e atmosfera, media e forma, digitale e fisico.
L’installazione è costruita su tre livelli: un film proiettato sullo schermo centrale a terra, concavo e circolare, simile a uno specchio d’acqua[21]; un boschetto, appunto, di altoparlanti attraverso i quali muoversi come in “una radura di voci”[22]; un baldacchino sospeso che filtra la luce, una nuvola formata da sottili componenti filamentose, come un tessuto di pizzo, che sostengono fronde di vetro e recipienti contenenti liquidi che reagiscono ai cambiamenti atmosferici, espandendosi e contraendosi. Beesley è infatti un esperto di “Scaffold”, strutture architettoniche sperimentali e interattive che reagiscono all’ambiente sul modello dei tessuti organici.
Testi e immagini di Chiara Trivelli
[1] Biennale Architettura 2021 – How will we live together,a cura di Hashim Sarkis, catalogo ufficiale della mostra, La Biennale di Venezia, Venezia 2021, p. 30.
[2] ivi p.59.
[3] ibidem
[4] ivi p.37.
[5] ivi p. 41.
[6] video-intervista in: https://www.labiennale.org/it/architettura/2021/among-diverse-beings/peju-alatise
[7] ibidem
[8] Biennale Architettura 2021 – How will we live together,a cura di Hashim Sarkis, catalogo ufficiale della mostra, La Biennale di Venezia, Venezia 2021, p.41.
[9] Biennale Sneak Peak in: https://www.labiennale.org/it/architettura/2021/among-diverse-beings/allan-wexler-studio
[10] ibidem
[11] https://www.labiennale.org/it/architettura/2021/among-diverse-beings/lucy-mcrae
[12] Biennale Architettura 2021 – How will we live together,a cura di Hashim Sarkis, catalogo ufficiale della mostra, La Biennale di Venezia, Venezia 2021, p. 65.
[13] https://www.lucymcrae.net/about
[14] Biennale Architettura 2021 – How will we live together,a cura di Hashim Sarkis, catalogo ufficiale della mostra, La Biennale di Venezia, Venezia 2021, p. 67.
[15] https://www.parsonscharlesworth.com/info/
[16] video-intervista in: https://www.labiennale.org/it/architettura/2021/among-diverse-beings/parsons-charlesworth
[17] video-intervista in: https://www.labiennale.org/it/architettura/2021/among-diverse-beings/studio-libertiny
[18] ibidem
[19] Biennale Architettura 2021 – How will we live together,a cura di Hashim Sarkis, catalogo ufficiale della mostra, La Biennale di Venezia, Venezia 2021, p.73.
[20]Biennale Sneak Peak in: https://www.labiennale.org/it/architettura/2021/among-diverse-beings/philip-beesley-living-architecture-systems-group-university-waterloo-school-architecture
[21] Biennale Architettura 2021 – How will we live together,a cura di Hashim Sarkis, catalogo ufficiale della mostra, La Biennale di Venezia, Venezia 2021, p.75.
[22] ibidem













Bellissima mostra.
Grazie del messaggio!