Conversazione con DORA GARCIA
a proposito della mostra “Conosco un labirinto che è una linea retta”
a cura di Angel Moya Garcia
Mattatoio, Roma
07.10.21 – 09.01.22
intervista di Chiara Trivelli

Figura di spicco nel panorama artistico internazionale, artista, insegnante e ricercatrice, Dora Garcia lavora sul confine fra performance e narrativa. Con L’inadeguato a Venezia nel 2011 ha affermato il potenziale sovversivo di posizioni marginali. Oltre a Venezia, ha esposto alla Biennale di Sydney, San Paolo, Gwangju, a Muenster e a Documenta 13. Al Mattatoio di Roma ha proposto una mostra che investe lo sviluppo storico della performance. Il problema della trasmissione dell’opera, la lettura come azione e la rilettura come testo in sé.

C.T. Il titolo della mostra Conosco un labirinto che è una linea retta proviene, secondo quanto riportato nel testo introduttivo[1], dal racconto di J.L. Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. In che modo il racconto di Borges ti ha ispirata?
D.G. La mostra non è ispirata dal racconto di Borges. La mostra era già pronta e dovevo pensare a un titolo. Il titolo quindi mi è venuto in mente dopo. Il testo di Borges l’ho letto molto tempo fa e in realtà ho già usato la citazione “conosco un labirinto che è una linea retta” in un film che ho fatto nel 2010 su Trieste. Il film è intitolato The Deviant Majority (“La maggioranza deviante”), dal titolo di un libro di Franco Basaglia.

In The Deviant Majority ho usato la citazione di Borges in correlazione alla struttura della città di Trieste: per andare dall’ex ospedale psichiatrico (costruito durante l’Impero austro-ungarico, un edificio molto grande sulla cima della città) a piazza Unità d’Italia e al mare, il percorso è una “linea retta”. All’epoca le persone del manicomio impiegavano molto tempo per riuscire a percorrere questa strada ed è per questo che c’ è quella citazione in quel film, perché in quel film c’è la storia di Basaglia che apre l’ospedale psichiatrico, il manicomio.

L’ho usata in quel film e, quando ho fatto la mostra al Mattatoio e stavamo pensando con Angel Moya al titolo, mi è venuta l’idea di utilizzarla nuovamente per via di un lavoro che abbiamo deciso di includere all’ultimo momento, che è una linea che va dallo spazio della performance Due pianeti si sono scontrati per migliaia di anni fino alla porta di ingresso, una linea retta con le parole “umwelt”, “innenwelt e “moi” scritte nel mezzo. Ho pensato che poteva essere quello il titolo in virtù della struttura di questo disegno. Nella mostra, comunque, penso ci siano molti riferimenti a Borges. Questo è solo uno.

C.T. Nell’intervista che hai rilasciato al Reina Sofia[2] in occasione della mostra personale che il Museo ti ha dedicato[3], hai detto che così come ti piace leggere romanzi polizieschi, ti piace anche leggere di psicoanalisi. Mi sembra che anche la tua mostra si sviluppi come una specie di poliziesco, in cui lo spettatore si attiva sulle tracce di una serie di indizi, come un investigatore insegue una narrazione al cui centro c’è uno o più enigmi da risolvere. Narrazione non esente da depistaggi. Per esempio, quando sono andata a cercare il contesto originario in cui si inseriva la frase di Borges, ho scoperto che “conosco un labirinto che è una linea retta” è sì una citazione di un racconto di Borges che fa parte della raccolta Finzioni ma che il racconto in questione non è Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, descritto da Borges come “note su libri immaginari”[4], bensì La morte e la bussola, un poliziesco ad esso sottilmente collegato: “so di un labirinto greco che è un’unica linea, retta. In quella linea si sono perduti tanti filosofi che ci si può ben perdere un semplice detective”[5].
In La morte e la bussola la natura paradossale e del tutto mentale di quel labirinto “che è composto da un’unica linea retta”, “invisibile” e “incessante”[6] è data dalla sua definizione geometrica: la distanza più breve fra due punti si rivela la più difficile da percorrere, ogni distanza fra due punti essendo a sua volta divisibile in due. Questo movimento è anche quello sotteso all’idea di flusso di coscienza, di una narrazione che procede per scatole cinesi, narrazione nella narrazione.
Ho una questione su questa linea disegnata a terra a cui ti riferivi. Lo spazio espositivo della mostra è costruito su un doppio. Quando si entra nella corte del Mattatoio, ci si si ritrova fra due padiglioni gemelli. In quello di destra è presentato il film Segunda Vez, che è al contempo un documentario e una video performance, mentre in quello di sinistra ci sono, secondo la definizione di Claire Bishop, performance delegate. In questo padiglione, assieme alle performance, ci sono anche la linea e le parole scritte a terra. Perché hai deciso di definire lo spazio con questa linea e queste parole?

D.G. Questo è qualcosa che faccio già da un po’, sono disegni che faccio sul pavimento e a volte sono collegati a una performance – e questo è il caso delle performance in mostra Il labirinto della libertà femminile e Due pianeti – mentre altre volte sono solo disegni. Appartengono a una serie che ho iniziato più o meno nel 2014 e che si intitola Mad Marginal Drawings. Ho iniziato a fare alcuni diagrammi su carta per cercare di spiegare a me stessa e agli altri differenti pensieri, annotazioni e relazioni fra i lavori, come disegni mentali.
Poi a un certo punto ho pensato che erano “quite nice” e che sarebbe stato bello utilizzare questi disegni per organizzare lo spazio nella mostra, dipingerli di bianco sul pavimento come dipingi le linee di un campo di calcio o da tennis. è così che ho iniziato a farli sul pavimento. Sono fatti col gessetto, questo significa che sono molto facili da ripulire, che sono temporanei: simili ai disegni che fanno i bambini sul pavimento, possono essere fatti e rifatti. L’idea di questi disegni è quella di organizzare lo spazio. A volte organizzano lo spazio per una performance, a volte organizzano lo spazio e basta.

C.T. Segunda Vez (“Seconda Volta”) è un progetto di ricerca che ha previsto la realizzazione di un film e di un libro, e che utilizza la figura dell’autore, critico, artista e psicoanalista Oscar Masotta (Buenos Aires 1930 – Barcellona 1979) come spunto per parlare di arte, politica e psicoanalisi[7].
Come mai hai deciso di lavorare su Masotta e, con lui, sul contesto storico, politico e letterario degli anni della cosiddetta “Guerra sporca” in Argentina?
Nel libro racconti che la prima volta che hai sentito parlare di Masotta è stato nel 2014 durante una conversazione pubblica all’Universidad Torquato di Tella di Buenos Aires con lo scrittore argentino Ricardo Piglia, il quale rilevò il vostro comune interesse per la performance, la psicoanalisi e la politica[8]. Nella già citata intervista pubblicata sul sito web del Reina Sofia, invece, racconti che sei arrivata a Lacan tramite Joyce e a Masotta tramite Lacan. Masotta infatti ha tradotto le opere di Lacan in spagnolo e introdotto il suo pensiero in America Latina. Masotta, inoltre, come te aveva “rifatto” – non so se questo sia il termine giusto – gli happening di Allan Kaprow…
D.G. Oh no, Masotta non ha “rifatto” Allan Kaprow. Fu il suo incontro con Allan Kaprow che gli ispirò i tre happening, ma sono happening di Masotta, non sono happening di Kaprow.

C.T. Tu hai ripetuto “per una seconda volta” e filmato i tre happening di Masotta: El helicóptero (1967) nel 2015 a San Sebastian; Para inducir el espíritu de la imagen (1966) nel 2016 a Buenos Aires; El mensaje fantasma (1967) in occasione della realizzazione del film Segunda Vez (2018), che raccoglie tutte e tre le tue ripetizioni degli happening di Masotta.
Allan Kaprow, che è il teorico degli happening, ha detto che gli happening – così come la vita – sono irripetibili ma che gli artisti possono reinventarli[9]. Quale è la relazione fra l’happening di Kaprow e quelli di Masotta?
D.G. Non sono sicura dell’ordine, cosa sia accaduto prima, ma so che Kaprow è stato invitato a Buenos Aires come giurato in un premio alla Torquato di Tella ed è possibile che Masotta lo abbia incontrato in questa occasione oppure è possibile che lo abbia incontrato a New York quando è andato là con una borsa di studio della Torquato di Tella. Comunque sia, Masotta ha incontrato Allan Kaprow e credo che Kaprow fece una grande impressione su Masotta, perché con lui ha scoperto un nuovo modo di lavorare. Masotta era abbastanza ossessionato dall’avanguardia, abbastanza ossessionato dal nuovo.
Credo che abbia capito che lì il nuovo materiale dell’arte era l’informazione, e questo era ciò che lo ha affascinato negli happening di Kaprow. Penso che sia stato influenzato da Kaprow, ma gli happening di Masotta sono solo di Masotta. Sono suoi happening, non sono ripetizioni di quelli di Kaprow, non sono interpretazioni. E’ lui l’autore di questi tre happening. Credo che l’ambizione di Masotta di diventare artista fosse reale, era un professore che voleva effettivamente verificare qualcosa, concepiva gli happening come esperimento.

Certamente quelli di Masotta avevano qualcosa a che vedere, molte coincidenze, con gli happening di Kaprow, come l’idea che il pubblico ha un ruolo importante, così importante che non è più pubblico ma “perfoming public”, e anche l’idea di durata, sono infatti molto lunghi. Ma Masotta ha qualcosa di nuovo che Kaprow non ha: l’idea di classe e del politico, e in un certo senso del sensuale, che ritengo sia molto tipico degli artisti latino-americani. Il politico e la sensualità erano ingredienti che non erano così presenti in Kaprow, certamente non lo era il politico. Questi sono gli elementi che mi hanno veramente attratto di Masotta, ma questo è qualcosa che ho scoperto quando già lo stavo leggendo. In realtà ho incontrato Masotta per caso, in modo imprevisto.
Non è che stavo pensando “devo cercare questa persona”. è successo piuttosto che qualcuno mi ha detto “dovresti leggere Masotta” e così ho iniziato e ho scoperto che è morto a Barcellona e che conoscevamo delle persone in comune, come sua figlia. E’ così che ho cominciato a leggerlo e ho scoperto che valeva veramente la pena impegnare completamente il mio tempo nel cercare di capire questa figura perché lui aveva questo ingrediente della “classe” che è nuovo nella performance, nella performance concettuale americana, e credo che questa componente della classe è molto presente negli happening che ho ripetuto per il film.

C.T. Segunda Vez è un film composto da più parti che si intrecciano confondendosi l’una nell’altra. Ci sono gli happening di Masotta che hai ripetuto e filmato. Ci sono riferimenti al contesto letterario e politico dell’epoca. C’è l’adattamento del racconto breve Segunda Vez (1977) di Julio Cortázar, che dà il titolo all’intero progetto e che hai girato a Buenos Aires nel 2016. C’è l’episodio del film che hai girato nella Biblioteca Universitaria di Leuven nel 2016, che si basa su Museo de la Novela de la Eterna (1967), l’anti-romanzo di Macedonio Fernández, scrittore che ebbe ampia influenza su Borges. C’è la documentazione fotografica e didascalica relativa agli anni della dittatura in Argentina. C’è infine, mostrata come film nel film, una tua video performance tratta da Calling di Allan Kaprow.
Nell’adattamento di Segunda Vez di Cortázar mi sembra che hai introdotto quegli elementi del politico e del sensuale di cui parlavi a proposito degli happening di Masotta e che non sono presenti nel testo originale…
D.G. Intendi dire che nelle differenti parti del film ci sono riferimenti alle altre parti?
C.T. Sì, intendo dire che c’è un gioco di corrispondenze interne o forse c’è indirettamente, perché è tutto parte della tua ricerca.
D.G. La ripetizione degli happening Para inducir el espiritu de la imagen, in cui un gruppo di vecchi e poveri sono pagati per essere guardati dal pubblico, e The Helicopter è abbastanza fedele a ciò che Masotta ha descritto a posteriori. Perché Masotta ha descritto gli happening dopo, dopo cioè che accaddero descrisse come li aveva fatti[10].
Nella descrizione di The Helicopter è riportato che una sezione del pubblico guardava un film, non è specificato che tipo di film. Sono stata in realtà io che ho introdotto come film l’happening di Kaprow, perché penso che questo è l’happening che lo ha influenzato di più. Sono stata io che ho riprodotto Calling con lo scopo di inserirlo nell’happening di Masotta. Questo non è Masotta, sono io. Poi ci sono due parti nel film che sono La Eterna e Segunda Vez. Segunda Vez è un’improvvisazione degli attori sulle linee generali della storia di Cortázar.
Abbiamo preso i personaggi della storia, aggiunto alcuni nuovi e gli attori hanno improvvisato. I dialoghi sono improvvisati. In questa improvvisazione io ho dato alcuni suggerimenti. Uno dei suggerimenti che ho dato è che la conversazione doveva suonare come se stessero flirtando (“fllirty”) quando il giovane uomo e la giovane donna parlavano nella sala d’attesa, mentre doveva suonare più piatta (“flattening”) quando erano nella stanza dell’interrogatorio e parlavano con la polizia.
Il testo delle due conversazioni è molto simile. Quando la polizia si rivolge a lei a volte usa le stesse parole che aveva usato il giovane uomo nella stanza di fronte. In questo caso però la conversazione doveva suonare più piatta (“flattening”), anche perché la persona che pone le domande qui è un uomo anziano, non più un uomo della sua stessa età. Questo è quello che ho detto agli attori e poi loro hanno improvvisato, hanno creato su questo. Così ci sono cose nel film che sono una completa creazione degli attori, molte cose. Io ero là solo a filmare quando queste accadevano.

In La Eterna, che è l’episodio girato in biblioteca, tutti coloro che stanno discutendo i diversi elementi del film ne avevano visto in precedenza gli altri episodi. Hanno discusso di molte cose e io ho solo selezionato alcune parti da queste conversazioni che sono durate due giorni. Ho selezionato alcune parti e le ho usate.
C.T. Questo modo di procedere è un po’ come la scrittura di Joyce che rincorre un flusso di parole, una conversazione che, in quanto orale, non è così strutturata… A proposito della mostra, ti volevo chiedere quale era la relazione tra il film documentario/video-performance Segunda Vez e le performance delegate presentate nell’altro padiglione.
D.G. Non so se ho capito quale è la domanda.
C.T. Nell’intervista che hai rilasciato al Reina Sofia parli della leggenda dei gemelli: uno è colui che agisce, l’altro colui che racconta. Dici: “come in quasi tutta la mitologia, questa figura è sempre presente e, logicamente, parla di un’azione a due facce: l’azione e la narrazione dell’azione”.
Così avevo immaginato i padiglioni gemelli al Mattatoio come speculari: da una parte lo spazio dedicato all’azione, la performance; dall’altra lo spazio dedicato al racconto dell’azione, il film. E’ chiaro che lo spettatore può immaginare quello che vuole ma io sono interessata alla tua idea di questa suddivisione.

D.G. Quando Angel mi ha detto che potevo usare entrambi i padiglioni, questa suddivisione è stata subito chiara perché se si proietta un film non si possono fare delle performance e se si fanno delle performance non si può proiettare un film. E’ una questione di luci, suono, ecc. Era chiaro che se volevo mostrare il film doveva essere in un padiglione, mentre le performance dovevano essere nell’altro padiglione. Era qualcosa semplicemente logico.
Il programma a cura di Angel Moya al Mattatoio[11] è un programma di performance, pertanto lui voleva curare e presentare performance. Ho deciso di presentare anche Segunda Vez perché ho pensato: Masotta è molto importante per la psicoanalisi lacaniana, ci sono tonnellate di psicanalisti lacaniani a Roma, la maggior parte dei quali sono argentini. C’è dunque una relazione qui fra il film e la città e io sono interessata a sottolineare la relazione fra performance e psicoanalisi, come l’una ha influenzato l’altra nel mio lavoro.
Sono stata molto interessata agli happening di Masotta perché hanno un’importante lettura psicoanalitica, come è un’importante lettura psicoanalitica l’idea di “altro”, come lo è per esempio quella di “evento”. Gli happening di Masotta hanno anche molte interessanti letture che usano il mito come chiave interpretativa, come quella che rintraccia in El helicóptero la stessa struttura dell’ Annunciazione dell’Angelo alla Vergine, che è una struttura non solo cristiana. L’Immacolata Concezione, infatti, può essere intesa come una variazione del mito della Nascita miracolosa che ricorre in tutte le religioni anche prima del Cristianesimo.
Ci sono molte cose che hanno avuto un impatto su di me, che ho letto in Masotta, che ho letto nel film e nelle mie performance. Volevo mettere tutti questi elementi insieme solo per vedere come interagiscono fra di loro. E così la ragione per cui in un padiglione ci sono le performance e nell’altro il film è solo una questione pratica. E’ semplicemente più facile costruire un padiglione per un film e uno per le performance per le diverse condizioni di luce e sonore. E’ stato dopo, quando già stavo lavorando al progetto e alla struttura della mostra, che ho potuto realizzare che c’era la struttura dello specchio fra i due padiglioni. All’inizio c’era solo un’idea molto vaga che avevamo due padiglioni, e che in uno avresti avuto il film e nell’altro le performance.
C.T. Puoi dirmi qualcosa in più sulla relazione fra performance e psicoanalisi nella tua ricerca? Qual è la differenza tra la psicoanalisi come processo e ciò che proponi con queste performance? Forse qualcosa più legato alla storia, alla politica, qualcosa che va al di là della dimensione individuale?
D.G. Non ho capito la domanda molto bene ma quello che posso dire è che io intendo la psicoanalisi – intendo per il mio uso, non è che la psicoanalisi è questo, ma il modo in cui io la uso – come uno strumento per studiare, perché crea certe figure del pensiero, come per esempio la figura dell’altro, per l’uso del linguaggio collegato all’inconscio, collegato al corpo, l’idea di reale, immaginario e simbolico. Questi sono tutti modi di pensare il mondo che sono utili per me, e li trovo belli, e così li uso. Non uso la psicoanalisi in un senso clinico ma puramente come una forma, un metodo di pensiero, un metodo per pensare. Non ho la capacità né la formazione per usare efficacemente la psicoanalisi in senso clinico, cioè per curare la gente, per aiutare la gente, perché la gente possa capire se stessa.
C.T. Tu credi che ci sia una dimensione non clinica bensì politica delle tue performance?
D.G. Sì, c’è del politico per me in ogni cosa. Ogni cosa è politica. E alcune performance sono molto esplicite in proposito. Non aggiungerei altro, è complicato dire “questa qua è più politica dell’altra”, credo che non sia il modo in cui voglio che le mie performance siano viste. Ma penso che ci sia certamente una dimensione politica, per esempio in tutte quelle questioni come: quale è il ruolo del pubblico, chi ha diritto di parola, che cosa si fa in uno spazio pubblico. Tutte queste sono questioni politiche.
C.T. Un’ultima domanda. Hai recentemente tenuto un corso all’università Iuav di Venezia. Qual era il tema del corso e quale è la relazione fra la tua ricerca artistica e l’insegnamento?
D.G. Sono un’insegnante dal 2008. Ho iniziato a insegnare perché avevo bisogno di un lavoro e, fra tutti i lavori possibili, penso che insegnare arte sia per me il migliore che possa immaginare. Ho insegnato in diverse scuole e ho sempre provato – quando ho potuto – a combinare la pratica come artista con l’insegnamento. Questo ha significato coinvolgere gli studenti in qualsiasi cosa a cui io ero interessata. Gli studenti non tanto hanno lavorato ai miei progetti, quanto piuttosto abbiamo studiato insieme cose che io trovo interessanti e che sono collegate ai miei progetti. Così c’è sempre stata un’unione naturale fra il mio insegnamento e la mia pratica artistica.
A Venezia ho condotto un corso sul teatro Agit-Prop. L’idea era quella che avremmo lavorato insieme a uno spettacolo di Majakowskij, ma alla fine non ha funzionato e così ciascuno ha creato il suo proprio pezzo Agit-Prop.
C.T. Vuoi aggiungere qualcosa? Ti fa piacere aggiungere qualcosa a questa intervista?
D.G. Sono felice della mostra al Mattatoio, ho lavorato molto bene. Vorrei aggiungere che poi alla fine, dopo Venezia, ho fatto anche un seminario di due giorni nell’ambito del Master di Arti Performative[12] sempre al Mattatoio. Mi ha dato molta soddisfazione. Posso dire solo cose positive, per me è stato molto gratificante.
[1] https://www.mattatoioroma.it/mostra/dora-garcia-conosco-un-labirinto-che-e-una-linea-retta
[2] Video intervista pubblicata sul sito web del Museo: https://www.museoreinasofia.es/en/multimedia/interview-dora-garcia
[3] https://www.museoreinasofia.es/en/exhibitions/dora-garcia
[4] Jorge Luis Borges, Finzioni, Adelphi Edizioni, Milano 2003, p.14.
[5] Ivi p.129.
[6] Ivi p.130.
[7] http://segundavezsegundavez.com/
[8] Dora Garcia, Segunda Vez: How Masotta Was Repeted, Oslo National Academy of the Arts and Torpedo Press, 2018, p.14. http://doragarcia.org/segundavez/pdf/Segunda_Vez_Book_forweb.pdf
[9] Pensiero riportato da Dora Garcia nell’intervista sopra citata, vedi nota n.2.
[10] Le descrizioni di El helicóptero e El mensaje fantasma sono contenute nel testo “After Pop, We Dematerialize”, mentre quella di Para inducir el espíritu de la imagen in “I Committed a Happening”. Entrambi i testi di Masotta sono stati raccolti, tradotti e pubblicati nel libro di Dora Garcia Segunda Vez: How Masotta Was Repeted, vedi nota n. 8.
[11] Il progetto Conosco un labirinto che è una linea retta di Dora García è il quarto capitolo del programma triennale Dispositivi sensibili, ideato da Angel Moya Garcia per il Mattatoio di Roma e incentrato sulla convergenza fra metodi, estetiche e pratiche delle arti visive e delle arti performative.
[12] https://www.mattatoioroma.it/pagine/dora-garcia-map-pa




















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