MIART 2021

Fiera Internazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

Milano

di Edoardo Pilutti

Questa è stata la prima fiera d’arte svoltasi in forma fisica e concreta in Italia, dopo l’anno e mezzo di chiusure e confinamenti a causa della tristemente nota pandemia (per altro ancora in corso soprattutto in altri continenti).

MIART ha celebrato il suo venticinquesimo anniversario, essendo stata fondata nel 1994, quando si tenne nel Parco Esposizioni di Novegro, il 27, 28 e 29 maggio.   Sembrava davvero fosse stata un’altra epoca: allora non ti bloccavano per controllare la validità del tuo certificato di vaccinazione con un apparecchio simile ad una pistola marziana, dopo averti misurato la temperatura con un altro aggeggio; non ti facevano spogliare di ogni oggetto metallico per farti passare sotto alla forca caudina di un rilevatore di metalli (non si sa mai, qualora avessi con te qualche arma da taglio o da fuoco, o qualche candelotto di dinamite).

Non ti facevano passare attraverso un tornello elettronico dopo che esso, sì, il tornello, aveva letto e vidimato un astratto scarabocchio sul tuo biglietto, il codice elettronico appunto, aprendosi meccanicamente.

Erano tempi più umani, in cui la fiera si svolgeva tra gli alberi di un parco, e in cui i nomi delle città di provenienza delle gallerie erano scritti in italiano, sui cartelli indicatori. In questa MIART 2021, anziché Napoli era scritto Naples e Venice stava per Venezia, Torino era diventato Turin e Firenze era scritta Florence, Milano era tradotto in Milan e Roma in Rome.

Ci sarebbe molto da dire sul dilagante e travolgente uniformarsi alla lingua anglosassone, certo la più diffusa e la più utile per la comunicazione internazionale: però non si corre forse il rischio di perdere la ricchezza e la padronanza dei significati e dei significanti dell’italiano, lingua formatasi con l’Umanesimo ed il Rinascimento?

Ma l’arte è rimasta sempre la stessa: forse anche per questo la gente corre a vederla, formando anche delle file davanti ai controlli persecutòri. Un modo per sfuggire alla paranoia dilagante è appunto quello di immergersi nel mondo dell’arte, che confina con quello del sogno.

E se volevi immergerti, ce n’erano di opere, di vario genere (mancavano forse soltanto i video), anche questa volta: erano lì, postazione dopo postazione, sulle pareti, sui pavimenti, a formare come un vasto mare di creatività, dipinti. sculture, installazioni, fotografie, distribuite in 16 tra riviste specializzate, case editrici e librerie e ben 142 gallerie.

Alcune presentavano una collezione a tema, come la Galleria d’Arte Maggiore (con sede a Bologna, Parigi e Milano, e con la gestione di Palazzo Franchetti a Venezia), che esponeva dipinti di grandi maestri del Novecento, fra cui Marino Marini, Giorgio de Chirico e Zoran Music. Vi erano anche degli oli di Giorgio Morandi: un prezioso paesaggio ed una natura morta, con vicine tre ceramiche che omaggiavano il grande pittore.

Tre interpretazioni differenti della natura morta metafisica: quella di Luigi Ontani inconfondibile per lo stravagante treppiede che ne faceva parte e per la colonnina di sostegno morescamente attorcigliata; quella di Bertozzi e Casoni, caratterizzata da alcuni pittoreschi coleotteri (appartenenti a qualcuna delle 350.000 specie di quegli insetti) appoggiati sui fiori immersi in un vaso; e quella dell’italiana (ma ha uno studio anche all’estero) emergente, Sissi, con dei fiori afflosciati su un vaso.

Altre facevano parte di una sezione che metteva a confronto autori di generazioni diverse, come il quasi novantenne Flavio Paolucci ed il giovane pittore sessantenne Giovanni Frangi presentati dalla Kromya Art Gallery con sedi a Lugano ed a Verona. Entrambi gli artisti sono focalizzati sul rapporto tra uomo e natura, ed in entrambi i casi viene proposto da loro un rapporto riflessivo, contemplativo, quasi mistico. Paolucci assembla rami e sassi trovati nei boschi con elementi in bronzo o vetro, creando composizioni dal sottile equilibrio che parlano della caducità della vita e della potenzialità di rinascita della natura.

Frangi, partendo da una riflessione su immagini fotografiche, con i colori a olio ricrea sulla tela greti di torrenti studiati in diverse stagioni, alla ricerca dell’essenzialità delle forme, alla ricerca della poesia dei sassi, dell’anima di una pietra.

Concettuali le opere della Galleria Giampaolo Abbondio che si è da poco spostata nell’umbra Todi, pur mantenendo una sede anche a Milano (presidiata dagli storici assistenti Michela Bassanello ed Alberto Pala) in alternanza con Bonelli Arte Contemporanea (via Porro Lambertenghi, 6) dove attualmente è allestita la raffinata collettiva “Poesia e Rivoluzione” curata da Leda Lunghi.  

Il progetto realizzatoper MIART prende invece il titolo dalla storica mostra realizzata alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia come evento collaterale della Biennale 2001: “AUTHENTIC/EX-CENTRIC. Conceptualism in contemporary African art“: curata da Olu Oguibe e Salah Hassan, con contributi da parte di Okwui Enwezor, che introdusse con forza al mondo dell’arte una generazione della diaspora africana.

Vent’anni dopo lo stand di Galleria Giampaolo Abbondio presenta i lavori di Maria Magdalena Campos-Pons che di quella mostra faceva parte, di Olu Oguibe che ne fu l’ispiratore e di Binta Diaw, alla sua prima presentazione fieristica, come segno di continuità e di diffusione di quelle voci originali.

Olu Oguibe è autore dell’installazione “SEX WORK IS HONEST WORK“, una scritta a luce neon intermittente di 6 metri che è la riproposizione di una simile molto più estesa presentata nel 2020 al festival Sonsbeek di Arnhem, in Olanda; un’opera che propugna la dignità delle donne e ne sostiene il rispetto in qualsiasi situazione. Di Marìa Magdalena Campos-Pons sono due opere a tecnica mista del 2006, facenti parte di una serie nata da un progetto che l’artista afrocubana realizzò nel 2006 durante un soggiorno a Padova, e dedicato alla realtà culturale e sociale dei venditori ambulanti.

Infine, Binta Diaw, senegalese classe 1995, presentava “AFR…”, installazione a muro realizzata con cime trovate al porto di Lipari, dove è stata esposta in una sua personale proprio quest’anno. Diaw riflette a fondo sul prefisso “AFR” e sulle possibilità di costruire nuovi significati positivi attraverso significanti risananti il linguaggio ancora oggi intriso di discriminazione e razzismo.

La Galleria Allegra Ravizza (con sede a Lugano e a Milano) ha proposto un nutrito gruppo di artisti (fra cui alcuni grandi nomi come De Pisis, D’Anna, Depero, Munari e Vedova) con delle opere incentrate sul rapporto fra l’uomo e la macchina: partendo dall’aeropittura del Secondo Futurismo e dall’allunaggio del 1969, si giunge all’avvento dei calcolatori elettronici che hanno creato un mondo virtuale ed una comunicazione globale che presentano aspetti sia rivoluzionari che ingannevoli.

A questo mondo si ispirano le opere di artisti giovani come Federico Luger (Milano, 1979), artista italo-caraibico che si è formato a Caracas, in Venezuela, dove ha vissuto dall’infanzia fino all’età di 21 anni, quando studiava pittura e fotografia all’Accademia Armando Reveron. Nel 2002 la Repubblica venezuelana fu devastata dalla più grande crisi sociale della sua storia: il giovane Luger, allora studente e manifestante, venne aggredito dalle forze di polizia di Chávez che quel giorno si macchiarono del sangue del popolo venezuelano. Federico si ritrovò travolto dalle vicende politiche del proprio paese, e si vide costretto ad emigrare in Europa, dove soggiornò in diverse città.

Si stabilì infine a Milano, sua città natale, dove continuò gli studi all’Accademia di Brera. Nel 2005 apre uno spazio dedicato all’arte contemporanea: FL GALLERY, che riunisce un gruppo di artisti internazionali, sia giovani che affermati, condividendo esigenze di ricerca e riflessione in un reciproco scambio culturale, curando progetti anche a Venezia, nel 2013, ed a Torino, nel 2020.

La galleria STEFANO CONTINI di Venezia e Cortina d’Ampezzo si presenta con un insieme variegato di artisti: dall’informale materico Mario Arlati al pittore onirico Julio Larraz, dalla fantasiosa e scenografica Carla Tolomeo all’ironico Manolo Valdez. Ormai classiche le creazioni dell’artista Igor Mitoraj: corpi bronzei dai quali spuntano delle ali angeliche e talvolta arti o volti altri che s’innestano magicamente sul corpo principale. Sono corpi che portano evidenti e tangibili segni di ferite, di mutilazioni, o di bendaggi, conseguenze di battaglie combattute eroicamente ma perse, o di imprese mitiche e tragiche come quella di Icaro.

Ma sono corpi che portano anche presagi di mutazioni, di rinascite. Dall’antichità alla contemporaneità, si tratta di eroi di cui ancor oggi abbiamo bisogno tutti, e negarlo non rende un buon servizio alla ricerca di autenticità dell’essere umano. E sono semidei umili ed eroi democratici, esseri ideali incarnati in grandi sculture dalla parte dell’umanità offesa e sconfitta ma che cerca di risollevarsi per vivere dignitosamente. Sono gigantesche figure mitologiche create da uno scultore nato nel 1944 sotto la Germania nazista, da un padre francese prigioniero di guerra e da una madre polacca deportata.  

L‘umiltà e l’ingegno sono anche le radici da cui nasce il lavoro del giovane Enzo Fiore, che crea dei grandi ritratti estremamente verosimili, quasi fotografici visti da una certa distanza: sembrerebbe essere, Enzo Fiore, un antico maestro dell’olio su tela, un pittore estremamente raffinato. Ciò che è ancor più sorprendente è che i ritratti di Fiore sono creati con terriccio, insetti, frammenti di foglie, erbe e ramoscelli secchi, qualche pietruzza ed una sostanza bituminosa a fare da collante sulla tela. Una sorta di “memento mori”, una trasformazione inversa a quella che subiremo oltre la vita, un passaggio dalla terra, dalla polvere (pulvis es, et in pulverem reverteris) alla radiosa identità del volto e del corpo umano.

fotografie di Edoardo Pilutti     edoardo.pilutti@gmail.com

ARTE, di Edoardo Pilutti

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